24 MARZO – LE FOSSE ARDEATINE

Ricopiamo una testimonianza al processo Kappler, che si concluse con la condanna del tenente colonnello delle SS.

DAL CARCERE ALLE CAVE ARDEATINE
deposizione del teste – Avv. Eleonora Lavagnino

Ventiquattro marzo ore 14. Il III braccio presentava il normale aspetto dell’ora particolarmente tranquilla. I vari servizi erano già stati eseguiti e solo alle 16 sarebbe passata la pulizia del pomeriggio e vi sarebbe stato il movimento di infermeria.
Chiesi ed ottenni di recarmi al gabinetto per il lavaggio delle gavette, concessione questa riservata alle donne secondo gli umori dei posten.
Rimasi al gabinetto per circa un quarto d’ora ed al mio ritorno, nel nel percorrere il ballatoio del primo piano, notai che al piano terreno, innanzi agli uffici, erano stati ammassati una ventina di uomini. Mi soffermai e detti un’occhiata in giro. Tre o quattro coppie di tedeschi muniti di una lunga lista andavano di cella in cella e costringevano gli uomini ad uscire, secondo l’elenco da essi tenuto, e a scendere in gran fretta al pian terreno, dove venivano allineati. Tali uomini erano senza pacchi, quindi pensai che non poteva trattarsi di una partenza, benché proprio di quei giorni tutti ne aspettassero una.

Avevo frattanto raggiunto le prime celle occupate dalle donne. In una di esse si trovava il dott. Luigi Pierantoni, tenente medico facente parte dell’organizzazione militare del P’d’A che, arrestato da circa 40 giorni, era riuscito a far organizzare uno speciale servizio di infermeria per i detenuti del III braccio.
Il dott. Pierantoni, accompagnato dall’infermiere tedesco, un certo Willy (anch’esso detenuto per essersi allontanato senza permesso dal posto) e da uno dei posten di servizio, era intento a fare una iniezione. Proprio sulla porta della cella rimasta aperta mi incontrai con due agenti della Feld Polizei i quali con l’elenco in mano richiedevano del Pierantoni.

 A questi non fu concesso di terminare la sua opera, ma, preso per un braccio, fu sospinto con l’usuale “loss,loss”. Benché non eccessivamente pratica, rimasi meravigliata in quanto tali agenti non facevano parte delle due squadre che abitualmente facevano servizio e che, ad onor del vero, erano relativamente gentili con il dottore. Mi trassi indietro per lasciare passare e cercare di scambiare qualche parola con il Pierantoni. Non mi fu possibile. Solo potei fargli un cenno interrogativo, al che lui rispose con altro cenno per significarmi che nulla sapeva e nulla capiva.

A mia volta fui sospinta verso la mia cella: “Komme, komme, loss, loss!”. Cercai di andare più lentamente possibile e prima di entrare potei ancora vedere il Pierantoni che si andava a raggiungere al gruppo, fra cui si notava per il suo camice bianco.
Rientrai in cella e rimasi allo spioncino per rendermi conto degli avvenimenti che non comprendevo.
Come detto più sopra, notai che non erano i nostri soliti agenti a prelevare i detenuti. I gruppetti di due erano muniti di un lungo elenco, che si doveva ritenere non compilato al carcere, in quanto il prelievo non veniva sistematicamente eseguito cella per cella, ma nominativamente, cosicché in più di una cella si bussava due o tre volte, per chiamare i prescelti.
Così al 288 proprio, innanzi a me, su quattro detenuti, due aperture di porta e prelievi, al 286 su cinque detenuti, tre aperture e quattro prelievi e così dappertutto.

Giovani e vecchi, giudicati ed inquisiti, assolti o condannati: non esisteva regola!

Il gruppo nel fondo aumentava.
I tedeschi avevano fatto una sommaria divisione tra gli ebrei e gli ariani. I primi venivano raggruppati tra le scale ed il finestrone, i secondi tra le scale ed il cancello d’ingresso.
Gli animi cominciavano ad essere tesi.
Non si trattava certo di una partenza normale in quanto si negava ai detenuti di portare con sé il corredo personale, le vettovaglie, e gli si impediva persino un minimo di toletta, come quello di infilarsi la giacca o il paletot, ed alcuni venivano sospinti sui ballatoi mentre ancora si allacciavano i calzoni e si ravviavano i capelli con le mani. Non si teneva neppure conto dell’età e dello stato di salute: alla cella 278 erano quattro zoppi tra cui Alberto Fantacone, mutilato di guerra, e tutti e quattro furono fatti scendere ed allineati con gli altri. Il nervosismo cominciava ad impadronirsi del braccio ed uno degli ultimi ad essere tratto da una delle celle dell’ultimo piano fu sospinto per le scale a forza mentre i suoi gridi si propagavano per il braccio.
Erano nel frattempo venute le quattro.
Con l’aiuto di uno specchietto cercavo di rendermi conto di quanto avveniva al gruppo dei politici, troppo lontano da me per osservarli direttamente. II buon Pierantoni si distaccò un momento dalla fila e attraversato rapidamente il corridoio entrò in infermeria per togliersi il camice ed indossare la giacca militare. Più alto della media normale, in divisa e con la barba era facilmente riconoscibile anche in lontananza.

Intanto, nella cella vicino alla mia, la 297, la moglie di Genserico Fontana aveva ottenuto di uscire un momento e avviatasi sul ballatoio era giunta di fronte ai partenti. Le fu concesso di scambiare qualche cenno con il marito che era allineato con gli altri e poi fu fatta rientrare. Ciò ci rassicurò in parte, perchè le era stato assicurato che essi andavano a lavorare. Fu fatto un primo appello degli ariani, poi l’uffciale delle SS passò a fare l’ appello degli ebrei.

 Come ho detto questi erano proprio sotto la mia cella e quindi potevo osservare lo svolgimento delle cose comodamente. Fatti allineare per tre, fu loro dato qualche comando militare per ottenerne I’allineamento. Erano 66. II più giovane, che faceva parte della famiglia Di Consiglio (7 fucilati ) era stato catturato con gli altri familiari 48 ore prima e la mattina, interrogato da una mia amica, le aveva detto di avere 14 anni. II più vecchio, canuto ed apparentemente in pessime condizioni di salute, poteva avere circa 80 anni. Tutti parlottavano fra loro e cercavano di costituirsi in gruppi di amici o parenti, per stare vicini nella eventualità di un viaggio. Durante tale parvenza di esercizio militare, uno dei più vecchi si volse a sinistra anziché a destra come era stato dato l’ordine: ciò fece sorridere alcuni tra i suoi compagni, ma tale buon umore fu subito represso dalla SS che percosse con due ceffoni il disgraziato. Fatto l’appello, la SS domandò: “Se c’è qualcuno di voi che sia disposto ad eseguire lavori pesanti di sterro e simili, alzi la mano”. Vidi gli ebrei guardarsi tra di loro e poi timidamente qualche mano cominciò ad alzarsi. Un mormorio corse tra di loro: Lavorare. Qualcuno si fregò le mani. “Allora- riprese la SS – quanti siete disposti a lavorare?”. Nuovo movimento tra gli ebrei, e tutte le mani furono in aria. “Quindi tutti volete lavorare? Bene! Io faccio un nuovo appello, se qualche d’uno non è stato chiamato esca dalla fila.” Fu rifatto l’appello, il piccolo Di Consiglio non fu chiamato: fatto un passo avanti, il suo nome fu aggiunto agli altri.

 Dalla parte degli ariani si stava svolgendo intanto qualche formalità che ci sfuggiva. Gli ebrei lasciati soli si raggruppavano e parlavano animatamente benché sottovoce. Qualcuno scambiava cenni con le donne al primo piano. Altri, scritti affrettatamente dei biglietti, li affidavano ai detenuti del piano terreno le cui celle rimanevano loro vicino. Noi lanciammo loro sigarette, fiammiferi e pane.
A questo punto gli spioncini ci furono chiusi e non ci rimase che convergere tutta la nostra attenzione nell’udito.
Erano circa le 17. Nuovi appelli, nuovi comandi militari, un movimento confuso di cui non ci rendevamo conto. II tempo passava. Perché non partivano mai? Fu durante tale periodo che i disgraziati furono legati e compresero la fine che li attendeva.
Era l’imbrunire quando si sentì lo scalpiccio dei piedi della colonna che si muoveva. Non usciva però come per le partenze solite dal cancello grande, ma dal cancello del cortile. Salii sulla branda e da lì mi arrampicai all’inferriata. Essi sfilavano sotto di me, troppo rasente al muro perché potessi vederli e si avviavano verso il cortile tra il III ed il VII braccio. A tratti vedevo un tedesco armato che evidentemente li scortava. Sul fondo, metropolitani in divisa col fucile mitragliatore imbracciato, seguivano lo sfilamento.
Nel cortile fuori dalla mia vista, ma sotto gli occhi dei detenuti del VII, i disgraziati furono fatti salire sui camions ed avviati al massacro.

 Da quanto mi consta furono prelevati tutti gli ebrei presenti al braccio in numero di 66 senza tener conto dell’età e delle condizioni di salute. Due che si erano sentiti male e che erano rimasti, fino a quando avevo potuto vederli, senza conoscenza, non mi risulta che siano stati riportati in cella e tanto meno in infermeria, dove gli ebrei non erano mai mandati.

 Circa I’appello degli ariani ero troppo lontana per poter distinguere con esattezza i nomi non conosciuti, ma ebbi I’avvertenza di contare i nomi stessi. Mi risulta in tal modo che tra ariani ed ebrei il III braccio diede 192 uomini. 

So che i tedeschi il giorno dopo mandarono l’elenco dei “partiti” in cucina perché fossero cancellati da chi di dovere dalla nota del vitto infermeria. Tale elenco fu, seppi dopo, per molto tempo nelle mani dell’infermiere italiano (detenuto) a nome Valentino, il quale però non avendo trovato a chi interessasse, ebbe a distruggerlo in un secondo tempo. Sul numero eravamo d’accordo.

 Posso dire che fra i prescelti vi erano numerosi innocenti, ed anche degli assolti. In questa seconda condizione era Pietro Paolucci che era stato assolto il 22 marzo ed il cui vero nome era (seppi dopo il 4 giugno) Paolo Petrucci.

 Persone mai interrogate e con imputazioni lievissime. Era di fronte a noi un oste arrestato da cinque giorni per aver servito da mangiare ad alcuni ebrei; al piano di sopra un ragazzo di 17 anni arrestato in strada per violazione alla norma del coprifuoco.
Mi sono resa conto che invece sfuggirono alla strage tutti quelli imputati di spionaggio, anche se con prove gravissime. Tra questi il Ten. Fabrizio Vassallo, Corrado Vinci, Bruno Ferrari, Salvatore Grasso e Bergamini, i quali furono più tardi giudicati con tale imputazione condannati a morte e fucilati il 24 maggio. Sfuggirono egualmente alla strage vari condannati a morte: tra cui Arcurio e compagni (mai più fucilati) e Padre Morosini invece fucilato il 10 aprile.

IL DRAMMA DELLE FOIBE NON HA BISOGNO DEGLI ULTRANAZIONALISTI.

Articolo di Gianfranco Pagliarulo sul quotidiano Domani del 12 marzo

  • Sono gli storici a dover scrivere la storia. E non serve alla comprensione dei fatti spegnere ogni luce sulla drammatica scena del confine orientale negli anni 40, e illuminare solo le tragedie delle foibe e dell’esodo.
  • Bene sarebbe che nell’anniversario dell’invasione italiana della Jugoslavia dalle istituzioni italiane giungesse un inequivocabile messaggio di distensione e di riconoscimento delle pesanti responsabilità che gravano ancora sul nostro Paese.
  • Il cosiddetto confine orientale andrebbe finalmente osservato con uno sguardo altro e alto: una frontiera di secolare convivenza fra culture, lingue, religioni, stili di vita differenti. Non un muro, ma un ponte che consenta di guardare ad un futuro pacifico.

Si avvicina l’80esimo anniversario dell’invasione italiana della Jugoslavia. Quell’evento – 6 aprile 1941 – rappresentò l’inizio di un’oppressione e poi di una repressione sanguinosa. Le vittime jugoslave dell’occupazione, della contestuale aggressione nazista e dei crimini dei collaborazionisti si contano nella cifra di oltre un milione di morti.

La legge 92 del 2004 recita, all’art. 1, che «la Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». In questi diciassette anni, ben lungi da un lavoro di costruzione di una memoria, se non condivisa, quantomeno complessiva, si è sviluppata un’azione a largo raggio delle destre, in particolare le destre estreme, tesa a imporre il dramma delle foibe e dell’esodo come una sorta di una narrazione alternativa e contrapposta alla storia della Resistenza.

Tale azione politica e culturale a tutt’oggi in corso ha come presupposto necessario l’estrapolazione delle drammatiche vicende dal contesto e perciò la consapevole rimozione delle finalità della legge in merito alla “complessa vicenda del confine orientale”. Ferma rimanendo – questo sia assolutamente chiaro – la condanna e la riprovazione per l’orribile vicenda delle foibe, come più volte ribadito dall’Anpi nazionale, e assieme la drammatica memoria dell’esodo, va sottolineato che l’obiettivo reale delle destre estreme è la costruzione di un mito vittimario fascista. Dietro questa complessa operazione si cela un paradossale capovolgimento della storia, per cui il fascismo italiano, responsabile dell’aggressione alla Jugoslavia, sarebbe stato in realtà vittima dell’aggressione jugoslava in una realtà ucronica in cui sono state radicalmente rimosse l’invasione, le violenze, l’impunità dei criminali di guerra, le complicità con il Terzo Reich.

L’operazione di illusionismo consiste nello spegnere ogni luce sulla drammatica scena del confine orientale, mentre i fari si illuminano soltanto per le tragedie delle foibe e dell’esodo.

Tutto qui per gli illusionisti? No. Rimane da disinnescare il pericolo rappresentato dalle fonti della conoscenza della verità sui fatti, cioè la ricerca storica, ove questa non confermi la vulgata della destra, e rivestire di autorità istituzionale la versione illusionista attribuendo alle medesime istituzioni il compito inquietante di stabilire una volta per tutte un’unica verità, negando la quale ci si pone in automatico al fuori di qualsiasi legittimità. Detto in breve, non sono gli storici che scrivono la storia, ma lo Stato.

La mozione di Fratelli d’Italia

L’incarnazione di questo disegno si trova nella mozione proposta dal gruppo di Fratelli d’Italia, approvata il 23 febbraio dal Consiglio regionale del Veneto e preceduta da un’analoga mozione del 2019 del Consiglio del Friuli-Venezia Giulia.

Nel documento si premette che «tra il 1943 ed il 1947 sono stati assassinati e infoibati dal regime comunista jugoslavo oltre 12.000 italiani». Ma il regime inizia alla fine del 1945; nel periodo precedente si è in presenza di un movimento di resistenza contro l’occupazione nazifascista. Eppure questa grottesca svista proclama la vacuità, la vanità e la presunzione di sostituire alla ricerca storica una artefatta verità politico-istituzionale.

Né va meglio con le vittime delle foibe, dichiarate nel numero di 12.000 – ovviamente senza citare alcuna fonte –, per cui qualsiasi altro calcolo formulato in base agli elementi di ricerca si rivela “riduzionista”. È il caso del “Vademecum per il giorno del ricordo”, esplicitamente attaccato come “riduzionista” dalla mozione. Il testo, davvero equilibrato, a cura di un gruppo di autorevoli storici, stima un numero di vittime inferiori di circa la metà rispetto a quello dichiarato dalla mozione.

Tra tali storici c’è da segnalare la presenza di Raoul Pupo, uno dei massimi studiosi dell’argomento, già relatore ufficiale al Quirinale nel Giorno del ricordo. Sia chiaro che il dramma delle foibe rimane esecrabile sia che le vittime siano state 12.000, sia che siano state un numero inferiore. Ma che le 12.000 vittime diventino verità assoluta e inconfutabile per decisione del Consiglio regionale del Veneto pena l’incorrere nella sua scomunica, è francamente imbarazzante per un Paese civile.

L’esegesi del testo della mozione potrebbe continuare a lungo, smontando omissioni e veri e propri falsi di cui è costellata. Conviene però soffermarsi su qualche punto ulteriore, ove si afferma che ci si impegna «a sospendere ogni tipo di contributo finanziario e di qualsiasi altra natura (…) a beneficio di soggetti pubblici e privati che, direttamente o indirettamente, concorrano con qualsiasi mezzo o in qualsiasi modo a diffondere azioni volte a macchiarsi di riduzionismo, giustificazionismo e/o di negazionismo nei confronti delle vicende drammatiche quali le foibe e l’esodo, sminuendone la portata e negando la valenza storica e politica di questa enorme tragedia».

Ma con chi ce l’hanno gli estensori della mozione? Lo si scopre in una delle premesse: «in occasione delle celebrazioni del Giorno del Ricordo ogni anno vengono organizzati numerosi convegni di natura negazionista o riduzionista con la presenza di presunti storici, a cura principalmente dell’Anpi, con il sostegno talvolta di amministrazioni locali compiacenti e di partiti politici presenti in Parlamento, con il solo fine di sminuire o addirittura negare il dramma delle foibe e delle drammatiche vicende correlate». In sostanza coloro che propongono una visione difforme da quella imposta nella mozione sarebbero sanzionabili: l’Anpi, gli storici («presunti»), le amministrazioni locali («compiacenti»), i partiti politici.

Lettera a Mattarella

Nella gabbia – invero zoppicante – della mozione è imprigionata, in sostanza, la libertà di ricerca e le libere iniziative promosse in questa direzione dalle forze sociali e politiche. Quanto basta perché un rilevantissimo numero di storici e di istituti di ricerca abbia inviato una lettera aperta al Presidente della Repubblica in cui si denuncia «un rischio gravissimo per la libertà di ricerca, il libero dibattito scientifico, e più in generale per la libertà di espressione del nostro Paese». In sostanza, la mozione di Fratelli d’Italia è in violenta rotta di collisione – un riflesso pavloviano? – con l’art. 21 della Costituzione che recita: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

E ancora: nella mozione si richiama la legge 115 del 2016 «con la quale si attribuisce rilevanza penale alle affermazioni negazioniste della Shoah» con l’evidente intenzione di estenderne l’ambito anche versus i “negazionisti” e “riduzionisti” delle foibe, nella cieca ignoranza del disposto della legge che considera la norma sulla negazione della Shoah come una circostanza aggravante dei delitti di natura tipicamente neofascista di propaganda razzista.

Finito? Neanche per idea. Nella mozione si denuncia, in breve, la non sufficiente presenza del dramma delle foibe e dell’esodo nei programmi di formazione. Come se nei programma di formazione ci si soffermasse, viceversa, sulle «complesse vicende del confine orientale». Ma quando mai si parla nelle scuole dell’invasione della Jugoslavia? Gli italiani in Jugoslavia si resero responsabili di incendi, fucilazioni, stragi, rappresaglie di ogni genere. E del fascismo di confine?

Fu proprio in quei territori che i fascisti presentarono il loro volto più violento per un lungo periodo che prese avvio dall’inizio degli anni Venti: una sistematica politica di oppressione e snazionalizzazione delle minoranze slovene e croate e di persecuzione degli antifascisti. Il 20 settembre 1920 a Pola Benito Mussolini affermò fra l’altro: «Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone». E dell’occupazione tedesca del Trentino Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia? Dopo l’8 settembre il Friuli Venezia Giulia fu occupato e amministrato dal Terzo Reich, collaborazionisti cosacchi compresi, in armonia con i fascisti locali ovviamente subalterni e fu luogo di ulteriori atrocità che videro protagonisti non solo i tedeschi, ma anche i fascisti italiani, fra cui quelli della X Mas. E dei criminali di guerra italiani rimasti a tutt’oggi impuniti?

Questo fu il contesto in cui si consumò il dramma delle foibe e successivamente dell’esodo istriano, fiumano e dalmata e, assieme, prese corpo la questione dell’espansionismo jugoslavo a fronte di una guerra che l’Italia, fra gli altri, aveva dichiarato, uscendone sconfitta l’8 settembre 1943 e redenta per quanto possibile dalla Resistenza. Andò molto peggio alla Germania e al Giappone.

La foglia di fico dell’ultranazionalismo

Le foibe e l’esodo sono tragedie sconvolgenti che richiedono la massima serietà nella ricerca storica, nell’attribuzione delle responsabilità, e nell’approccio politico affinché non diventino la bandiera di una fazione e la foglia di fico di un ultranazionalismo irredentistico di tipo novecentesco. E questo è il cuore del problema che abbiamo davanti: dietro il racconto di una storia riscritta, cancellata, inventata, semplicemente violentata si nasconde una ruggine vendicativa e sciovinista che costituisce un pericolo per il nostro Paese e per i Paesi confinanti. Per i firmatari della mozione e per quella rilevantissima parte delle destre che condivide la sostanza di quelle tesi il Novecento non è stato il secolo breve ma è invece un secolo così lungo che continua tutt’oggi, nell’anno del Signore 2021.

Il cosiddetto confine orientale andrebbe finalmente osservato con uno sguardo altro e alto: una frontiera di secolare convivenza fra culture, lingue, religioni, stili di vita differenti. Non un muro, ma un ponte che consenta di guardare ad un futuro pacifico e di progresso di civiltà, mettendo a valore le straordinarie ricchezze culturali di quella terra.

Bene sarebbe che proprio in questa prospettiva, nella circostanza dell’anniversario dell’invasione italiana della Jugoslavia proprio dalle istituzioni italiane giungesse un inequivocabile messaggio di distensione e di riconoscimento delle pesanti responsabilità che gravano ancora sul nostro Paese.

COMO, OTTO MARZO

I giardini di piazza del Popolo intitolati a Norma Cossetto

Comunicato stampa

Apprendiamo dai giornali che oggi 8 marzo verrà intitolato il giardino di Piazza del Popolo a Norma Cossetto, studentessa istriana martire delle foibe. Certamente le foibe sono una brutta pagina della storia che ha vissuto il nostro paese, conseguenza di un comportamento verso gli slavi di italianizzazione forzata con centinaia di migliaia di episodi di violenze, abusi, stupri, incendi e assassinii da parte dei fascisti italiani. Certamente, e non da oggi, l’ANPI condanna le foibe come atto crudele fatto dai partigiani Jugoslavi consapevoli che le vendette comportano vittime innocenti, e la studentessa Norma Cossetto fu una di questi. Ci piacerebbe che con i morti delle foibe venga celebrato il ricordo delle migliaia di slavi, i così detti “allogeni” (1) e degli italiani antifascisti morti di fame, di stenti e di torture nei numerosi campi di concentramento italiani in territorio slavo (ben 5 ufficiali e di grandi dimensioni, fino a 10.000/15,000 internati come in quello più noto di Arbe) o i 36 stanziati in Italia e riservati in prevalenza a cittadini italiani di origine slava, tra cui il famigerato lager della Risiera di San Sabba a Trieste, unico campo in Italia a essere fornito anche di forno crematorio. Campo gestito dalle truppe tedesche in territorio controllato dalla famigerata Repubblica Sociale di Salò, e destinato agli oppositori politici (vittime stimate tra le tremila e le cinquemila). Non si dica che è l’ANPI a voler nascondere certe verità, si provi a chiedere ragione a chi, al governo per tre interi decenni con le forze di centro destra, non ha mai sentito il dovere o l’obbligo di chiedere spiegazioni al Governo Jugoslavo, o quelle forze politiche della destra nazionale che per anni, in particolar modo dal 1956 per tutti gli anni sessanta l’unica rivendicazione che portarono avanti fu quella revanscista sui territori italiani, eppure quanto successo nelle foibe era di pubblico dominio già da allora. Forse una chiave di lettura la indichiamo noi, non è che se il Governo Italiano avesse chiesto ragione dei fatti relativi alle foibe il Governo Jugoslavo avrebbe chiesto di processare i responsabili dei campi di concentramento slavi e tutti quelli che amministrarono le terre occupate dagli italiani? L’ANPI comasca è stata l’unica in questi anni ad aver organizzato non manifestazioni demagogiche, ma più di un convegno sul tema del Fronte Orientale, foibe comprese. L’ultimo giusto quattro anni fa in Biblioteca Comunale con la partecipazione di due storici, Eric Gobetti, ricercatore di Storia Contemporanea presso l’università di Torino (ci verrà fatto rilevare che si tratta di uno storico di sinistra, ebbene sì, ne siamo consapevoli) e il prof. Giorgio Conetti (di lui però non si può dire), per anni docente di Diritto Internazionale e Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Dell’Insubria di Como e presidente di quella Commissione Storico-culturale Italo-Slovena (2) che dopo ben sette anni di lavori produsse un corposo dossier, reso pubblico su sollecitazione di molti organismi fra cui l’ANPI e il Governo Sloveno dopo ben otto mesi. Un’ultima cosa, la scelta dei giardini di Piazza del Popolo è casuale o il fatto di essere di fronte alla ex Casa del fascio è una scelta di coerenza politica?

Grazie per l’attenzione.

La segreteria del Com. Prov. di Como

(1) quei cittadini che, in uno stato nazionale, sono di stirpe, ed eventualmente di lingua e di tradizioni culturali e religiose diverse da quelle della maggioranza, e che conservano una propria identità culturale e spesso anche politica.

(2) Nell’ottobre 1993 i Ministri degli esteri dell’Italia e della Slovenia istituirono una Commissione storicoculturale italo-slovena con lo scopo di fare il punto sui risultati della ricerca storica realizzata nei due Paesi sul tema dei reciproci rapporti. La Commissione era formata da parte italiana da Giorgio Conetti, docente di diritto internazionale e preside della facoltà di giurisprudenza di Como che la presiedeva, e dagli storici Angelo Ara (Università di Pavia), Marina Cattaruzza (Università di Berna), Fulvio Salimbeni (Università di Udine), Raoul Pupo (Università di Trieste), Maria Paola Pagnini, ordinario di geografia dell’Università di Trieste e dal sen. Lucio Toth, dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. La parte slovena, presieduta dalla dott.ssa Milica Kacin Wohinz era composta dagli storici France Dolinar, Branko Marusˇicˇ, Boris Mlakar, Nevenka Troha, Andrej Vovko e Aleksander Vuga. Inizialmente fecero parte della Commissione anche il costituzionalista Sergio Bartole, lo scrittore Fulvio Tomizza, lo storico Elio Apih e Boris Gombacˇ che, per vari motivi, non poterono proseguire nell’incarico. Dopo 7 anni di lavoro e ripetuti incontri la relazione conclusiva della Commissione fu approvata all’unanimità dai suoi 14 componenti il 25 luglio 2000 e consegnata ai rispettivi Ministeri degli esteri, ma inspiegabilmente per 8 mesi non fu resa pubblica. Benché la pubblicazione fosse stata sollecitata da più parti, tra le quali l’ANPI, e da un voto unanime della Camera dei Deputati, la relazione fu resa pubblica nel testo integrale soltanto il 4 aprile 2001 dal quotidiano “Il Piccolo” e – lo stesso giorno – anche dal Ministero degli esteri.

MOSTRA IDEE DELLA PACE

Dal primo marzo, e per almeno una settimana, la mostra “Le Idee della Pace” è allestita presso la Coop di Rebbio (via Giussani-via Cecilio), nell’atrio del negozio Euronics a lato dell’ingresso alla Coop vera e propria.

L’ Anpi provinciale di Como ha aderito all’ iniziativa ed è presente con un suo totem.

Vi invitiamo a visitare la mostra.

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi