IMMUNITA’: INTERVISTA A LORENZA CARLASSARE

Dall’intervista di Lorenza Ghidini ( Radiopopolare di Milano) a Lorenza Carlassare del 25 giugno 2014

Immunità: con questo Senato discussione ridicola

 
     

Lorenza CarlassareL’intervista di Radio Popolare a Lorenza Carlassare
Come andrebbe risolta la questione dell’immunità di cui tanto si parla in queste ore?

Se non fosse tragico sarebbe ridicolo. Ieri ho sentito che la ministra Boschi diceva di voler trovare una mediazione. La mediazione si ha tra persone che vogliono cose diverse. Sull’immunità nessuno la voleva. Tra chi mediano? Nessuna l’aveva messa, nessuno l’aveva pensata, che allora la eliminino, che mediazione è?
Ho sentito anche qualcuno dei miei colleghi parlare del ’700, delle origini celebri dell’immunità parlamentare, ma si sono dimenticati di ricordare da chi allora ci si voleva difendere. Già nel medioevo inglese le rivendicazioni delle libertà parlamentari nascevano dall’esigenza concreta, quotidiana, politica, di garantirsi dalle interferenze del re nell’attività parlamentare e più tardi viene addirittura codificata la regola del Bill of right nel 1689 che la libertà di parola, discussione e di azione in parlamento non può essere contestata in sede giudiziaria. Per difendersi. In Francia, quindi un secolo dopo, alla fine del ’700, mentre il re era pronto a usare la forza contro i rappresentanti del terzo stato riuniti in assemblea generale, Bailly disse “la nazione riunita in assemblea non riceve ordini da nessuno”. E si approvò una dichiarazione che sanciva l’inviolabilità della persona, di ciascun deputato, che discende dai principi che “nessun centro di potere può ergersi al di sopra del corpo rappresentativo della nazione” (Robespierre). Qui è tutto ridicolo: il re non c’è, i giudici non sono i giudici del re, del governo, da chi si devono difendere? Loro non sono i rappresentanti della nazione perchè non sono nemmeno eletti (questi del nuovo senato).

Nella Costituzione italiana l’immunità era stata prevista secondo quale ragionamento?

Quando siamo passati dalla monarchia alla repubblica è rimasta nella costituzione l’immunità, sempre per ragioni più fragili però sempre opportune. Una cosa rimane importante. La riforma del 1993 ha tolto il secondo comma dell’articolo 68, che prevedeva due cose: l’insindacabilità e questa va benissimo, questa deve rimanere per chiunque: i membri del parlamento non possono essere perseguiti – oggi è scritto chiamati a rispondere, un cambiamento semantico importante – per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Questa è l’insindacabilità, questa è corretto che ci sia.
La seconda cosa era l’immunità, che chiedeva l’autorizzazione della camera per sottoporre a procedimento penale, che è stata tolta. E’ arrivata l’autorizzazione a procedere per gli arresti, le perquisizioni, le intercettazioni e i sequestri di corrispondenza. Questa no, non deve rimanere per sindaci e presidenti di regione spesso indagati.
Io vorrei però sottolineare una cosa importante: la prassi che è stata usata. Dopo la riforma del 1993 rimane l’insindacabilità per le opinioni espresse nell’esercizio della funzione. Invece le camere cosa hanno fatto per difendersi fortemente, al massimo, hanno allargato il concetto di “opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni”  fino a comprendere in pratica tutte le attività, ogni espressione di pensiero di ogni parlamentare.
La garanzia del secondo comma viene spostata nel primo, per estendere le garanzie e la difesa.
Allora che resti solo l’insindacabilità – senza parificare deputati e senatori perchè i deputati sono eletti dal popolo, mentre questi sono (in qualche modo nominati) dalle segreterie dei partiti. Vengono sì eletti, ma si elegge quello che il partito offre.
Io sono molto contraria a questa riforma perchè la vedo globalmente come il desiderio di togliere la popolo qualsiasi possibilità di interferire, la legge elettorale che mette la soglia di sbarramento all’8% per i partiti non coalizzati vuol dire togliere le minoranze. C’è il desiderio di andare avanti senza impacci.
Bisogna stare attenti quando si riducono gli spazi di democrazia e le garanzie, le minoranze espulse, un senato non elettivo…. questo senato non elettivo: o ne fanno un espressione che sia solo relativo alle questioni regionali, e allora più che un senato diventa un organo di consulenza. Ma qui si sta giocando male perchè ci sono delle funzioni importantissime che gli sono attribuite: ha la funzione legislativa più elevata possibile perchè nel progetto questo Senato che non è un Senato, è uno “sgorbio”, concorre insieme all’altra camera alla riforma della costituzione. Quindi una legge di riforma costituzionale, che è la più importante, è di competenza anche di quest’organo. Allora il discorso cambia. Io accetto il discorso di un senato delle autonomie ma non di un senato nominato così, che partecipi alla formazione della corte costituzionale su cui è tanti anni che vogliono mettere le mani.

Il suo giudizio è che questo “sgorbio” sia frutto di insipenza o di mediazioni eccessive, sbagliate…?

Non credo sia insipienza, il mio giudizio è che questo sgorbio sia frutto di un disegno che va avanti da tantissimi anni di cambiare la costituzione. E quando loro parlano di cambiare la costituzione non pensano ad alcune modifiche, pensano di toccarne il cuore, quella che è la sua forma e cioè la democrazia costituzionale. Democrazia costituzionale non vuol dire totalitaria o maggioritaria dove chi vince ha tutto, ma vuol dire limiti e regole al potere. Il costituzionalismo nasce per questo, per porre limiti e regole al potere. Il potere non le vuole e quindi reagisce in modi più o meno educati a seconda del momento storico e dei personaggi. Io sono veramente ostile. Se questo senato fosse un organo di consulenza e basta a me andrebbe anche bene, ma allora non devono dargli il potere di revisione costituzionale. Questo è inammissibile, veramente inammissibile. Devo dire la verità che mi sono un pò scoraggiata in quest’ultimo periodo, vedo che tutti saltano sul carro dei vincitori, anche alcuni miei insospettabili colleghi.
Devo aggiungere una cosa: tra le mediazioni possibili inserire la corte costituzionale nelle questioni politiche è un modo per ammazzare la corte, delegittimarla, sottoporla a critiche per il suo operato e ingombrarne inutilmente il lavoro. La funzione della corte andrebbe allargata nelle verifiche dopo le elezioni, per dire era ineleggibile.  Facciamo l’esempio di Berlusconi. Quando è stato eletto non era eleggibile, c’era una legge che lo vietava perchè era titolare di una concessione pubblica. Il parlamento ha detto che andava bene lo stesso, perchè tanto non era lui che gestiva ma gestiva Confalonieri. Le varie forze politiche non sono una garanzia, negli altri paesi queste questioni dell’ineleggibilità sono gestite dalla corte costituzionale, sia in Francia che in Germania.
Questo darei alla corte.

RIFLETTERE PRIMA DI DECIDERE

Dal sito di Liberta’ e Giustizia

Riflettere prima di decidere. È davvero conveniente creare una nuova casta di nominati?

 
Nadia Urbinati
     

All’inizio il problema era il bicameralismo perfetto ora è il bicameralismo. Questa riforma si orienta di ora in ora verso un radicale rifacimento dell’assetto istituzionale della nostra Repubblica. Due principi si stanno imponendo che reinterpretano il significato della rappresentanza e del suffragio: i cittadini sono sovrani dimezzati; il voto dei cittadini serve solo a formare una maggioranza. Infatti chi vuole ardentemente questa riforma, l’ha giustificata con questi due argomenti: un Senato eletto costa troppo e rende troppo lento il processo decisionale. Sono due argomenti molto problematici e essenzialmente ideologici, il primo per lo meno volgare e il secondo insofferente per la deliberazione democratica. Entrambi sono poco convincenti e per nulla comprovati. Sui costi: la democrazia costa al suo sovrano, che è fatto di cittadini che vivono del loro lavoro. Devono pagare per le funzioni pubbliche di cui lo stato democratico ha bisogno e spetta a chi svolge quelle funzioni essere attenti a limitare i costi. L’esito di anni di mal uso e abuso delle risorse pubbliche da parte di parlamentari dovrebbe essere affrontato riscrivendo le regole relative al loro uso delle risorse non cancellando un organo eletto, ovvero potere di ele facendo pagare ai cittadini decurtandoli del loro potere di elezione. Sembra che la responsabilità prima dei costi della politica stia nel potere democratico: se non si votasse si spenderebbe meno. Questo è il senso del messaggio sui costi del Senato eletto.

Circa il secondo argomento, quello delle celerità decisionale: è un fatto che nei regimi democratici la tensione tra il potere esecutivo e quello legislativo sia fondamentale e permanente. Ma la tensione dovrebbe risolversi con il riconoscimento della priorità del secondo. La massima tocquevilliana per cui la democrazia si corregge con più democrazia dovrebbe quindi essere così interpretata: nell’equilibrio dei poteri (un bene che il costituzionalismo moderno ci ha regalato) occorre che il potere di proporre e fare le leggi sia centrale perché quello che direttamente discende dalla volontà dei cittadini. In una democrazia elettorale, fare le leggi comporta la centralità degli organi che ricevono autorità diretta dal suffragio. Circola tra i costituzionalisti l’idea che il cittadino sia arbitro. Questa riforma è figlia di questa interpretazione che va nella direzione di diminuire il valore e l’estensione del potere elettorale per porre l’accento sui poteri dello stato che il cittadino-arbitro osserva lavorare e giudica. Il cittadino-arbitro è come un giudice imparziale che sta fuori del gioco; i titolari della squadra sono i veri giocatori, non lui/lei. E i giocatori sono liberi di decidere che schema usare, quali ruoli rafforzare e quali indebolire. L’importante è che vincano. L’importante è che il cittadino-arbitro sappia a urne chiuse chi governerà, chi ha vinto. Poi i giochi sono tutti fatti da altri e il cittadino sta a guardare e alla fine del gioco decide se riconfermare quei giocatori o cambiarli. Questa visione della democrazia è così minima che accontenta chi ha una tradizionale allergia alla democrazia. La riforma che il Partito democratico si appresta a votare piace molto ai democratici minimalisti proprio perché restringe al massimo il potere dei cittadini-attori (o sovrani) e amplia quello dei cittadini-arbitri. In questa riforma spicca infatti la centralità dei giocatori e soprattutto di coloro che segnano, ovvero di chi fa: del potere esecutivo. Si restringe il dominio del potere legislativo (che è fatto anche di discussione e rappresentanza, non solo di decisione) nel senso che al voto dei cittadini si chiede di esprimere la maggioranza (a questo mira del resto la legge elettorale) e non tanto di vedere rappresentate le proprie idee o interessi; lo stesso vale per la Camera politica, alla quale anche è richiesto di sostenere il governo (della maggioranza) non tanto di controllare, mediare, discutere e se necessario fermare (insomma tutto quello che gli organi deliberativi dovrebbero fare). L’esito auspicato è l’identità della maggioranza monocamerale con l’esecutivo. I rappresentanti, con questa riforma, sono rappresentanti del volere della maggioranza. Si tratta di una riforma di stampo plebiscitario con la quale la bilancia del poteri pende verso l’esecutivo: il fare più che il discutere. Si approda al presidenzialismo senza dirlo. In questo quadro si iscrive la proposta di abolire il Senato eletto.

Perché bisogna essere critici di questa proposta (che non significa abbandonare l’idea di una riforma del Senato che sappia attuare un parlamentarismo funzionale ovvero che abbia sia il potere di esprimere la maggioranza, e fare leggi, sia che a quello di rappresentare, controllare e infine fermare)? Non è forse vero che Matteo Renzi ha commentato la legge sulla responsabilità dei giudici passata alla Camera dicendo che al Senato la si cambierà? Dunque, anche lui deve ammettere che passare una legge al vaglio due volte consente di correggere errori e migliorare una decisione. Questo solo dovrebbe bastare a convincerci della rilevanza di avere due Camere. Si dice inoltre e insistentemente che un Senato eletto allunga i tempi della politica. Ma si potrebbe obiettare che l’Italia repubblicana ha prodotto un numero spropositato di leggi pur anche con un bicameralismo perfetto! Insomma questi argomenti sono molto poco convincenti. E veniamo così al nodo centrale di questa proposta: l’elezione indiretta dei membri del Senato delle Autonomie.

Cominciamo dall’osservare che volendo riformare la Costituzione, sarebbe opportuno porsi la seguente domanda: perché ci proponiamo di attuare questa riforma? Da quale esigenza siamo mossi e per ottenere che cosa? Questo livello preliminare di chiarezza sulle intenzioni è importante perché consente di affrontare in maniera non approssimativa il problema, ovvero dargli organicità e coerenza. Indubbiamente, sono due le esigenze che giustificano una riforma della legge fondamentale della nostra Repubblica: rendere il sistema politico più trasparente e (rispondente), e renderlo più funzionale. La prima esigenza detta la legittimità delle regole e procedure democratiche nell’era del costituzionalismo: neutralizzare e impedire l’arbitrio (anche della maggioranza eletta), e per questo rendere il potere dello Stato più efficacemente esposto al controllo e sapientemente bilanciato nei poteri che lo compongono, in modo che non ci sia accumulo in nessuno di essi. Se questa è l’esigenza, l’elezione indiretta (la nomina da parte degli organismi di governo comunale e regionale) del Senato della Repubblica va nella direzione contraria. Perché l’elezione indiretta dei componenti di un organo deliberativo (o che partecipa comunque alle decisioni nazionali sebbene non a tutte) è opaca rispetto all’elezione per suffragio dei cittadini. Al contrario, attribuisce un enorme potere discrezionale ad alcuni grandi elettori (sì eletti per suffragio universale, ma per svolgere funzioni di governo territoriale) che in questo modo acquisterebbero un potere superiore a quello di tutti gli altri cittadini, in violazione al principio di eguaglianza politica. Si risolve questo vulnus togliendo al Senato il potere di dare e togliere fiducia al governo, ovvero gli si assegna un potere mezzo-sovrano. In questo modo, si dice, non si toglie nulla al potere dei cittadini e del suffragio. Vero: ma si crea un potere delegato nuovo e molto ampio. Il paradosso di questo Senato nominato è che avrà troppi poteri per essere composto di nominati e troppo pochi poteri per riuscire a controllare gli eletti. Introduce infine un arretramento palese rispetto al suffragio diretto, con un ritorno al XIX secolo quando il voto indiretto venne teorizzato e usato come argine alla democrazia e all’incalzante espansione del suffragio diretto e segreto. Oggi lo si rispolvera per risparmiare e velocizzare la decisione.

L’evoluzione della storia politica occidentale è andata in una direzione contraria a quella del voto indiretto; anche perché è diventato in poco tempo un fatto provato che questo metodo di nomina serviva a generare e proteggere un’oligarchia social-politica, una classe di notabili sensibili agli interessi locali o di chi li nominava. A riprova di ciò potrebbe essere utile ricordare che il Senato degli Stati Uniti d’America fu nella prima fase della storia della federazione americana composto da nominati dagli Stati e diventò un istituto così corrotto e piegato agli interessi non controllabili dei potentati locali e dei notabili che controllavano le nomine da indurre il legislatore a riformarlo istituendo l’elezione diretta dei suoi membri. Quindi la strada semplificatrice e di risparmio che il Partito democratico promette rischia di produrre nuove sacche di corruzione e di privilegio. Un potere in mano ai grandi elettori locali anche se pagato con rimborsi sarà un’occasione di potere appetibile anche perché fuori dal controllo diretto dei cittadini e quindi meno scalfibile. Prevedibilmente si aumenterà la funzione repressiva e ai magistrati verrà dato un nuovo settore di controllo.

Un secondo argomento che si usa per giustificare questa riforma è che dobbiamo seguire modelli riusciti altrove, per esempio quello tedesco. Ma questo argomento è sbagliato e capzioso. La Germania è una federazione compiuta. Ha una Camera direttamente eletta dai cittadini tedeschi e una Camera dei Länder (Bundesrat). Quest’ultima è composta di membri non eletti a suffragio universale diretto, di esponenti dei governi dei vari Länder. Il fatto molto diverso che la federazione consente è che questa camera di nominati è per davvero espressione degli interessi dei Länder e infatti i suoi membri sono vincolati al mandato ricevuto dai loro governi locali per fare gli interessi di ciò di cui sono i rappresentanti (dei loro territori), in violazione del generale principio del divieto di mandato imperativo. L’Italia annacquerebbe il modello tedesco perché non darebbe mandato imperativo ai rappresentanti dei territori – ma si potrebbe obiettare che in questo modo dà anche meno controllo e molta meno accountability. Se si vuole davvero fare un Senato delle regioni e dei territori occorrerebbe avere il coraggio di approdare a un compiuto federalismo, appunto come in Germania. Diversamente, il libero mandato a membri di un Senato nominato dai territori finirà per ascrivere un potere troppo grande, poco o nulla rispondente all’interesse dei territori, e troppo fuori controllo. Questo è il paradosso di un federalismo a metà e di un modello tedesco annacquato. Infine, non si tiene contro del fatto che la Germania ha mantenuto questa sua tradizione dall’Ottocento, non è retrocessa dal voto diretto a quello indiretto, come invece faremmo noi. La questione è anche di ragionevolezza e prudenza politica: dopo anni di condanne della casta ora si legittima la casta e si chiede agli italiani di devolvere il loro potere di elezione a funzionari ed eletti locali, piccoli potenti che le cronache quotidiane ci restituiscono come attori di una corruzione capillare ed espansa. È il risparmio una ragione sufficiente per rispolverare il voto indiretto o non invece la promessa implicita a una nuova generazione locale di prendersi velocemente una fetta di potere discrezionale? Un Senato che non risponde agli elettori perché non deve comunque sfiduciare il governo è un Senato che ha comunque troppo potere per non generare una nuova oligarchia, una nuova casta.

FESTA ANPI MONZA – BRIANZA

DAL 25 AL 29 GIUGNO A BESANA BRIANZA

 

A.N.P.I. MONZA e BRIANZA

Festa provinciale

Marzo 1944: dagli scioperi, alla deportazione, alla Repubblica fondata sul lavoro

 

25 – 29 giugno 2014 BESANA BRIANZA – via De Gasperi


TUTTI I GIORNI MOSTRE, DIBATTITI, CONCERTI E SPETTACOLI.

PER TUTTA LA DURATA DELLA FESTA SARANNO FUNZIONANTI BAR, BIRRERIA, GRIGLIERIA E RISTORANTE.

L’EVENTO SI TERRA’ ANCHE IN CASO DI PIOGGIA (tendone sia per il ristorante che per gli eventi ed i dibattiti).

 

Programma:

http://www.anpimonzabrianza.it/progetti-5f.html#25

 

STEFANO RODOTA’- INTERVISTA DE IL FATTO

Da: Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2014

 

Bisogna chiamarlo, Stefano Rodotà, per chiedergli un commento sull’epurazione democratica dei senatori dissenzienti, sapendo che alla fine si diranno cose molto simili alle ultime interviste? “Non bisogna essere pessimisti. Vede, la scomunica a noi professoroni è stata utile. Dopo si è innescato un circuito virtuoso di proposte e audizioni parlamentari. La vicenda dei senatori, quella di Mineo in particolare, è l’ennesima forzatura”.

Professore, da dove nasce l’insofferenza verso il dissenso?

Se Renzi e i suoi, la ministra Boschi soprattutto, avessero degnato di un minimo d’attenzione la discussione che c’è stata nell’ultimo periodo, sarebbero oggi in condizione di fare una riforma costituzionale davvero innovativa, considerando i suggerimenti che sono arrivati per la legge elettorale, per la composizione e le funzioni del Senato. Invece c’è stata un’indifferenza assoluta verso una discussione che ha visto coinvolti anche molti studiosi vicini all’area politica in cui si muove il governo: la conferma di una scarsissima cultura costituzionale.

Hanno fretta, dicono.

È questo lo sbaglio: la fretta non è solo cattiva consigliera, ma produce ritardi. Basta vedere tutto il tempo perso con il cronoprogramma del governo Letta, quando si voleva smantellare l’articolo 138 della Costituzione. In più occasioni, come altri colleghi, mi permisi di suggerire che forse era meglio partire da riforme molto condivise, come la riduzione del numero dei parlamentari e il bicameralismo perfetto, invece di mettere mano al procedimento di revisione. Se allora si fosse incardinata la discussione in Parlamento, oggi avremmo fatto passi avanti: per avere una fretta scriteriata, hanno buttato via molti mesi.

Il ministro Boschi ha detto: “Il processo delle riforme va avanti, non si può fermare per dieci senatori”.

Questa non è una riforma come tutte le altre, è la riforma della Costituzione. E nella Carta stessa è previsto un procedimento “contro la fretta”: le letture distanziate di almeno tre mesi nelle due Camere, l’eventuale referendum. Perché si deve poter discutere! I senatori di cui parla Boschi hanno fatto obiezioni e proposte che non sono l’espressione di un capriccio, ma registrano opinioni diffuse nel Pd. E comunque una discussione sulle riforme costituzionali dovrebbe dar conto dell’opinione diversa anche di un solo senatore.

I 14 senatori sostengono che sia stata “un’epurazione delle idee non ortodosse” e una “palese violazione della Carta, riferendosi all’articolo 67 che prevede l’assenza di vincolo di mandato per i parlamentari.

Certo, il vincolo di mandato è rilevante. Quell’articolo dice anche che i parlamentari “rappresentano la Nazione”: chi rappresenta punti di vista diversi non deve certo essere allontanato. Aggiungo che sia il regolamento della Camera sia quello del Senato prevedono la sostituzione di un membro delle Commissioni facendo riferimento a singole sedute o a singoli disegni di legge. Ma la ratio di queste norme sono non è eliminare chi la pensa diversamente, bensì quello di aiutare il lavoro. Ossia di poter procedere in caso di assenza o in caso in cui ci siano competenze specifiche di un altro parlamentare.

Dalla Cina il premier ha ribadito:  “Contano più i voti degli italiani che il veto di qualche senatore”.

Quante volte abbiamo contestato la lettura del voto-lavacro a Berlusconi? Questi comportamenti gettano un’ombra molto inquietante sul futuro: Renzi non vuol negoziare con i membri del suo partito, ma continua a farlo con Berlusconi. Il Parlamento non è il luogo di ratifica delle scelte governative. Si confermano le mie enormi perplessità sull’Italicum, una legge elettorale studiata per questo. Temo che Renzi abbia già introiettato l’idea di una democrazia d’investitura. Credo si corra il rischio di rinnovati interventi della Consulta, anche sulla nuova legge elettorale. Attenzione però: sarebbe una delegittimazione dell’intero sistema, di un Parlamento non più in grado di legiferare in accordo con i principi costituzionali.

Avevate ragione a temere “la svolta autoritaria”?

La svolta autoritaria non è quella che nel Novecento ha portato l’Italia verso una dittatura. Una svolta autoritaria si può avere anche quando si dice “prendere o lasciare” o quando si eliminano istituzionalmente le voci fuori dal coro.

 

70° ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DELL’ANPI

Si sono svolte a Roma il 6 e 7 giugno – sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica – le celebrazioni per il 70esimo anniversario della nascita dell’ANPI. Una iniziativa che ha riscosso importanti risultati di partecipazione ed emozione. Presenti folte delegazioni di Comitati Provinciali dell’Associazione provenienti da tutta Italia.

 

Dettagli, rassegna stampa, foto e testi dei messaggi pervenuti sono disponibili su

http://www.anpi.it/70-anniversario-della-fondazione-dellanpi

 

in allegato è possibile leggere il testo integrale dell’intervento del Presidente Nazionale dell’ANPI, Carlo Smuraglia, nel corso della cerimonia solenne di apertura delle celebrazioni svoltasi nella Sala Auditorium del Centro Congressi Frentani venerdì 6 giugno.

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