LA SCELTA IERI E OGGI

LA SCELTA IERI E OGGI

Di Giovanni De Luna da Il Manifesto del 25 aprile 2013


A settanta anni dal 1943 questo 25 aprile serve per una riflessione e un bilancio. Allora tutto cominciò

con una scelta. Quando l’8 settembre crollò lo Stato, tutti furono lasciati soli con la propria

coscienza. Di colpo le istituzioni scomparvero togliendo a ognuno protezione e sicurezza; nel marasma

delle fughe del re, dell’ignavia dei generali, della protervia dei nazisti, ognuno fu costretto a

riappropriarsi di quella pienezza della sovranità individuale alla quale si rinuncia ogni volta che si

sottoscrive un patto di cittadinanza che preveda uno scambio tra diritti e doveri, libertà e regole,

autonomia personale e legami sociali.

Dopo l’8 settembre 1943, nello scenario comune di un’esistenza collettiva segnata dalla paura, dalla

fame, dall’incubo delle bombe e della morte, non tutti però reagirono allo stesso modo. Gli operai, ad

esempio, vissero quella fase all’insegna di un esplicito protagonismo collettivo, riappropriandosi

dell’arma dello sciopero e della fabbrica come centro di organizzazione politica. Fu così anche per le

donne; in una guerra «al femminile», uscirono dai gusci degli interni domestici, sostituendosi ai mariti,

ai padri e ai fratelli (lontani a combattere o chiusi in casa per sfuggire alle rappresaglie e ai

rastrellamenti) per garantire la sopravvivenza della famiglia. Altri soggetti collettivi, i ceti medi,

precipitarono invece una sorta di stupefatta rassegnazione, aspettando e sospirando che tutto finisse.

A queste scelte se ne intrecciarono tantissime altre, individuali, in un mosaico difficile da ricomporre in

un quadro unitario. L’ebbrezza di reimpadronirsi del proprio destino è quella che ci viene restituita dal

partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, quando decide di andare in montagna («Nel momento in cui partì,

si sentì investito in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare,

a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più

inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato

così uomo, piegava il vento e la terra»).

È fu così anche nel caso dei partigiani di Giustizia e Libertà,come scrissero Giorgio Agosti («Questa lotta,

proprio per questa sua nudità, per questo suo assoluto disinteresse, mi piace. Se ne usciremo vivi, ne

usciremo migliori; se ci resteremo, sentiremo di aver lavato troppi anni di compromesso e di ignavia,

di aver vissuto almeno qualche mese secondo unpreciso imperativo morale») e Dante Livio Bianco

Nella mia vita, c’è stata una grande vacanza: ed è

stato il partigianato: venti mesi di virile giovinezza, sradicato e staccato da ogni vecchia cosa»).

Riprendendo da una delle più belle pagine di Italo Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno), le parole del

suo partigiano Kim («basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra

parte») molte di quelle scelte sono state interpretate quasi come se i percorsi di approdo alla

Resistenza o alla Repubblica di Salò siano stati più da vittime del «capriccio» del Destino o di Dio che

da uomini consapevoli. In realtà per Calvino, quel «nulla» «era in grado di generare un abisso». Il

«furore» della guerra civile coinvolgeva entrambi gli schieramenti, ma «da noi, dai partigiani, niente va

perduto, nessun gesto, nessun sparo, pure uguale a loro, va perduto. Tutto servirà, se non a liberare

noi, a liberare i nostri figli, a costruire una umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere

cattivi».

Certo che nella Resistenza confluiscono decisioni occasionali, opportunismi esistenziali, desideri di

avventura adolescenziali. Ma certamente scegliere di andare in montagna a combattere fu un gesto

che risalta con nettezza soprattutto se confrontato con quelli di chi, come ha scritto Claudio Pavone,

«fece il possibile per sottrarsi alla responsabilità di una scelta o almeno cercò di circoscriverne confini e

significati, avallando di fatto la continuità delle istituzioni esistenti e accettando insieme che il vuoto

venisse riempito dal più forte» e che sottolinea un dato di fatto: né durante le guerre di indipendenza

al momento dell’intervento nella guerra 1915-1918, né in nessuna altra fase della nostra vita

nazionale unitaria l’Italia ha potuto mobilitare tanta passione civica, impegno diretto di partecipazione e

un tal numero di combattenti volontari come nella lotta partigiana. (Isnenghi).

Puntualmente, il revisionismo degli anni ’90, accentuando l’importanza della «zona grigia»,

enfatizzando i comportamenti di quelli che rifiutarono di schierarsi da una parte o dall’altra (Rocco

Buttiglione propose allora, come espressione dei veri italiani, il vescovo, defensor civitatis, che

svolgeva la sua opera pastorale con assoluta equidistanza tra fascisti e antifascisti) si scatenò contro

l’antifascismo, nel tentativo esplicito di delegittimare proprio la «scelta» come regola di comportamento

morale, sia individuale che collettiva.

Gli eventi più recenti legati all’elezione del presidente della Repubblica suggeriscono che il tempo delle

«scelte» possa essere definitivamente tramontato. Proprio per questo, però, perpetuare il ricordo della

Resistenza significa ritrovare la stessa scintilla che scattò allora in quanti oggi, senza lasciarsi

travolgere dal crollo dei partiti e dall’implosione delle forme dell’agire collettivo, mettono in atto scelte

altrettanto consapevoli, violando deliberatamente le regole del conformismo e del compiacimento, in chi

si avventura nei luoghi dell’emarginazione e della sconfitta, in chi sfida il male anche nel silenzio delle istituzioni.

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