OTTO MARZO
LA DONNA NELLA RESISTENZA
RICORDO DI LAURA POLIZZI, PARTIGIANA MIRKA
LA RESISTENZA FU ANCHE EMANCIPAZIONE
Nel dicembre del ’43 non avevo ancora aderito a nessun partito. Un responsabile del Partito Comunista, Mario Malvasi, convocò le tre-quattro donne che avevano collaborato come staffette in città nel primo gruppo che si era costituito per la Resistenza e ci diede dei compiti. La responsabile era Maria Zaccarini, poi c’era l’addetta al lavoro nelle fabbriche, una di Soccorso Rosso ( era mia sorella, che all’epoca non aveva ancora 17 anni), e io alla stampa e propaganda. Questo gruppo si allargò prima alle compagne socialiste, poi si avviò verso la strada unitaria.
Io purtroppo nel gennaio ’44 fui denunciata e dovetti entrare in clandestinità. Fui mandata a Piacenza con due compiti: seguire l’Agitprop, gruppo di agitazione e propaganda, e dare vita ai Gruppi di Difesa della Donna ( GDD). Da Piacenza andai a Parma, nel marzo ’44, sempre con gli stessi compiti. Ero collegata con il PCI, nel frattempo mi ero anche iscritta, clandestinamente.
Entrai in contatto con le donne contadine di Reggio, si erano già costituite in gruppo, cominciammo a ricevere Il Clandestino e Noi Donne, mentre facevamo noi stesse dei volantini di propaganda.
Ci riunivamo nelle stalle, a poco a poco il movimento cresceva, i compiti specifici erano mantenere i contatti con le organizzazioni dei GAP e delle SAP che si stavano costituendo in pianura. Le più coraggiose, poi, collaboravano con le SAP, mentre di giorno lavoravano nei campi.
Dai gruppi di Difesa delle Donne partivano rivendicazioni, prima di tutte la fine della guerra e la pace. Ponevamo il principio, forte e molto sentito, della parità con l’uomo.
Per le giovani di oggi forse è difficile capire come era sottovalutata la donna. Sono note le cose che il fascismo diceva: le donne hanno il cervello più piccolo, devono stare in casa, non devono lavorare, devono fare i figli. Cresceva nelle donne il senso delle ingiustizie subite e una forte volontà di riscatto. Certo, il tema principale era la fine della guerra, i giovani che partivano e che non tornavano, ma si sentiva che stava nascendo anche qualcosa di nuovo. Per me fu uno stimolo, questo, ad aderire alla Resistenza: prima di tutto per far finire la guerra, ma anche per i diritti.
Stare nel movimento mi piaceva, vorrei riuscire a trasmettervi il nostro entusiasmo, quando ci riunivamo, e anche l’amore che ci legava, era non solo condividere i pensieri, le idee, ma anche sentirci unite, sostenerci a vicenda. Loro mi amavano molto perchè ero la più giovane, ma anche perchè ero l’unica lontana dalla famiglia e dalla propria casa. I GAP e i SAP preparavano i volantini e poi li davano a noi donne perchè li distribuissimo. La notte le donne li portavano davanti alle case e al mattino la gente diceva: “stanotte sono arrivati i partigiani”, ma i partigiani eravamo noi, erano le contadine che rischiavano la pelle di grosso, perchè quei paesi erano occupati dai tedeschi.
Aleggiava un nome leggendario di donna partigiana armata, che era Norma Barbolini del modenese. Io era affascinata da questa figura e mi chiedevo: perchè non posso essere come Norma? Chiedevo ai dirigenti di poter essere mandata in montagna ma mi rispondevano sempre di no, dicevano che il mio lavoro era quello che facevo lì. Non mi mandavano in montagna ma ci mandarono un compagno, uno del Fronte della Gioventù. Io mi lamentai con lui di questo, e lui mi disse: se vuoi ti dò la parola d’ordine, così puoi salire. Decisi di andare, ma prima ebbi un contatto importante. Tutte le donne del nostro gruppo erano inizialmente comuniste. Poi ci furono anche le socialiste. Il movimento cresceva, ma ci ponevamo il problema di avere fra noi anche le cattoliche. Fui perciò inviata a parlare con Giuseppe Dossetti, rappresentante della DC clandestina. Lui mi ascoltò con grande attenzione e poi mi disse : “ti metterò in contatto con una nostra esponente, la professoressa Cecchni”. Rimasi molto impressionata da quest’uomo, per la sua grande educazione e per la sua dolcezza. Dunque, dopo questo incontro decisi di partire. Parlai con il mio responsabile politico e gli lasciai un biglietto con i nomi di tutti i contatti. Arrivata in montagna, mi chiesero chi i mandava. Io dissi la verità, allora loro dissero: “ alla prima occasione informiamo il direttivo del partito che tu sei qua, e vediamo cosa ci dicono”. Per fortuna passa di lì il commissario unico delle brigate Garibaldi, Didimo Ferrari “ Eros”, che dice:” L’ordine è che tu vai giù, ma io è da tanto tempo che aspetto un aiuto, non me lo mandano mai, tu resti e vediamo casa fare di te”.
Passiamo un’intera notte tutti insieme a parlare di Resistenza, di unità. Io avevo vissuto la mia esperienza resistenziale in modo unitario e con una parte ancora sconosciuta alle stesse formazioni partigiane: le donne. Portavo questa esperienza, secondo me modesta, invece era molto importante, l’ho capito dopo. Mi assegnano la funzione di vice commissario politico delle brigate reggiane.
Lì faccio un’esperienza straordinaria, vigeva una disciplina ferrea, perchè si combatteva, non potevamo perderci in quisquilie. C’erano anche altre donne in montagna, che mi guardavano con curiosità e interesse, perchè nessuna aveva posti di comando come me. Poi succede che io e il comandante Pio Cotermini “ Luigi”, il mio futuro marito, ci innamoriamo. La cosa è bene accettata dai partigiani, meno dal Comando Supremo. Un bel giorno, era settembre, viene un ispettore e con molta delicatezza mi dice che è stato deciso che io debba tornare in pianura, fra le donne, al mio posto di comando. Obbedisco e scopro che nel frattempo il movimento è cresciuto. Le donne mi fanno festa e tutte chiedono della lotta in montagna, fanno domande, tutte vogliono sapere.
La sera, nelle stalle, insegno loro “Brigata Garibaldi” e le canzoni partigiane, questi inni così veri che anche sootovoce, nelle stalle, infiammano il cuore di chi ascolta. Arriva l’inverno e vengo a sapere che tutta la mia famiglia, mia madre, mia sorella, mio padre sono stati arrestati e deportati. Mio padre muore a Mauthausen. Mio fratello mi dicono che è stato fucilato, ma dopo la Liberazione torna da Mauthausen, in cadavere vivente come tutti quelli che sono tornati da lì. In quei momenti maturo molto. E’ con animo diverso che continuo la mia attività, non riesco neanche più a cantare. Mi pareva di non fare mai abbastanza! Con il mio compagno ci scambiamo qualche lettera, tramite le staffette, ma non sono le lettere di due ragazzi innamorati, sono lettere di due giovani coscienti di dover intensificare le loro lotta, lui in montagna, comandante pluridecorato, io in città.
Poi arriva il proclama di Alexander che dice che i partigiani devono tornare a casa. Ma i partigiani non tornano, chiedono aiuto a noi donne. E allora le donne fanno cose inimmaginabili, aumentano le manifestazioni, aumenta l’azione della pianura, non solo delle donne, anche degli uomini.
Per aiutare i combattenti lassù fanno cose straordinarie: decine di materassi furono sventrati, si filò la lana, confezionati guanti, calze, berretti, maglioni. Si raccolsero soldi da inviare, medicinali, sigarette e persino furono preparati dei dolci. Ad una riunione lanciai pure l’idea di mettere dei biglietti nelle maglie per incoraggiare quei ragazzi. Li conoscevo uno per uno ed ero affezionata a chi era rimasto. Ai primi di gennaio ricevetti l’ordine di proseguire il mio lavoro del gruppo di Difesa delle Donne a Milano. Partimmo una mattina, appena finì il coprifuoco, in bicicletta, con me c’era anche la compagna Zelinda Rossi di Bagnolo. A Milano c’era la neve, fu un inverno terribile.
A Piacenza il ponte non c’è più, ci trasportano i fascisti con le barche, noi diciamo che stiamo fuggendo perchè i partigiani stavano liberando l’Alta Italia. A Milano io e Zelinda ci separiamo: vengo presa in consegna da Rina Piccolato, che era una collaboratrice di Longo. Partecipo alla prima riunione dei Gruppi di Difesa, qui il livello è molto più alto, e non si parla di contadine, ma di fabbriche. Avrei diretto il IV e il V settore, che erano Porta Romana e Porta Vittoria. Fra i dirigenti di quel settore conosco “Lia” ( Gina Galeotti Bianchi) che viene uccisa il giorno della Liberazione – era incinta. A Milano la mia esperienza di lotta fu completamente diversa. Avevo alcune fabbriche sotto la mia direzione, ma quella che mi è rimasta più impressa fu la Centrale del Latte, con un gruppo di donne meravigliose. Ero a diretto contatto con le responsabili delle fabbriche, ci riunivamo una volta a settimana. Era marzo e si aveva la sensazione che stesse per finire. Veniva da noi una dirigente della lotta clandestina, ci disse che dovevamo organizzarci per l’assedio: inizialmente si pensava che a Milano ci sarebbe stato l’assedio, poi le cose andarono diversamente.
Organizziamo la Resistenza in appoggio alla lotta armata, e ci danno un bracciale bianco da mettere al braccio quando si comincia a sparare. Una notte, verso l’alba, sento sparare, metto il bracciale bianco e vado al posto convenuto, che era il Niguarda. Manca una compagna, “Lia”.
E qui finisce la mia lotta.
Da Patria Indipendente, 13 marzo 2011