OTTO MARZO

OTTO MARZO

LA DONNA NELLA RESISTENZA

RICORDO DI LAURA POLIZZI, PARTIGIANA MIRKA

LA RESISTENZA FU ANCHE EMANCIPAZIONE

Nel dicembre del ’43 non avevo ancora aderito a nessun partito. Un responsabile del Partito Comunista, Mario Malvasi, convocò le tre-quattro donne che avevano collaborato come staffette in città nel primo gruppo che si era costituito per la Resistenza e ci diede dei compiti. La responsabile era Maria Zaccarini, poi c’era l’addetta al lavoro nelle fabbriche, una di Soccorso Rosso ( era mia sorella, che all’epoca non aveva ancora 17 anni), e io alla stampa e propaganda. Questo gruppo si allargò prima alle compagne socialiste, poi si avviò verso la strada unitaria.

Io purtroppo nel gennaio ’44 fui denunciata e dovetti entrare in clandestinità. Fui mandata a Piacenza con due compiti: seguire l’Agitprop, gruppo di agitazione e propaganda, e dare vita ai Gruppi di Difesa della Donna ( GDD). Da Piacenza andai a Parma, nel marzo ’44, sempre con gli stessi compiti. Ero collegata con il PCI, nel frattempo mi ero anche iscritta, clandestinamente.

Entrai in contatto con le donne contadine di Reggio, si erano già costituite in gruppo, cominciammo a ricevere Il Clandestino e Noi Donne, mentre facevamo noi stesse dei volantini di propaganda.

Ci riunivamo nelle stalle, a poco a poco il movimento cresceva, i compiti specifici erano mantenere i contatti con le organizzazioni dei GAP e delle SAP che si stavano costituendo in pianura. Le più coraggiose, poi, collaboravano con le SAP, mentre di giorno lavoravano nei campi.

Dai gruppi di Difesa delle Donne partivano rivendicazioni, prima di tutte la fine della guerra e la pace. Ponevamo il principio, forte e molto sentito, della parità con l’uomo.

Per le giovani di oggi forse è difficile capire come era sottovalutata la donna. Sono note le cose che il fascismo diceva: le donne hanno il cervello più piccolo, devono stare in casa, non devono lavorare, devono fare i figli. Cresceva nelle donne il senso delle ingiustizie subite e una forte volontà di riscatto. Certo, il tema principale era la fine della guerra, i giovani che partivano e che non tornavano, ma si sentiva che stava nascendo anche qualcosa di nuovo. Per me fu uno stimolo, questo, ad aderire alla Resistenza: prima di tutto per far finire la guerra, ma anche per i diritti.

Stare nel movimento mi piaceva, vorrei riuscire a trasmettervi il nostro entusiasmo, quando ci riunivamo, e anche l’amore che ci legava, era non solo condividere i pensieri, le idee, ma anche sentirci unite, sostenerci a vicenda. Loro mi amavano molto perchè ero la più giovane, ma anche perchè ero l’unica lontana dalla famiglia e dalla propria casa. I GAP e i SAP preparavano i volantini e poi li davano a noi donne perchè li distribuissimo. La notte le donne li portavano davanti alle case e al mattino la gente diceva: “stanotte sono arrivati i partigiani”, ma i partigiani eravamo noi, erano le contadine che rischiavano la pelle di grosso, perchè quei paesi erano occupati dai tedeschi.

Aleggiava un nome leggendario di donna partigiana armata, che era Norma Barbolini del modenese. Io era affascinata da questa figura e mi chiedevo: perchè non posso essere come Norma? Chiedevo ai dirigenti di poter essere mandata in montagna ma mi rispondevano sempre di no, dicevano che il mio lavoro era quello che facevo lì. Non mi mandavano in montagna ma ci mandarono un compagno, uno del Fronte della Gioventù. Io mi lamentai con lui di questo, e lui mi disse: se vuoi ti dò la parola d’ordine, così puoi salire. Decisi di andare, ma prima ebbi un contatto importante. Tutte le donne del nostro gruppo erano inizialmente comuniste. Poi ci furono anche le socialiste. Il movimento cresceva, ma ci ponevamo il problema di avere fra noi anche le cattoliche. Fui perciò inviata a parlare con Giuseppe Dossetti, rappresentante della DC clandestina. Lui mi ascoltò con grande attenzione e poi mi disse : “ti metterò in contatto con una nostra esponente, la professoressa Cecchni”. Rimasi molto impressionata da quest’uomo, per la sua grande educazione e per la sua dolcezza. Dunque, dopo questo incontro decisi di partire. Parlai con il mio responsabile politico e gli lasciai un biglietto con i nomi di tutti i contatti. Arrivata in montagna, mi chiesero chi i mandava. Io dissi la verità, allora loro dissero: “ alla prima occasione informiamo il direttivo del partito che tu sei qua, e vediamo cosa ci dicono”. Per fortuna passa di lì il commissario unico delle brigate Garibaldi, Didimo Ferrari “ Eros”, che dice:” L’ordine è che tu vai giù, ma io è da tanto tempo che aspetto un aiuto, non me lo mandano mai, tu resti e vediamo casa fare di te”.

Passiamo un’intera notte tutti insieme a parlare di Resistenza, di unità. Io avevo vissuto la mia esperienza resistenziale in modo unitario e con una parte ancora sconosciuta alle stesse formazioni partigiane: le donne. Portavo questa esperienza, secondo me modesta, invece era molto importante, l’ho capito dopo. Mi assegnano la funzione di vice commissario politico delle brigate reggiane.

Lì faccio un’esperienza straordinaria, vigeva una disciplina ferrea, perchè si combatteva, non potevamo perderci in quisquilie. C’erano anche altre donne in montagna, che mi guardavano con curiosità e interesse, perchè nessuna aveva posti di comando come me. Poi succede che io e il comandante Pio Cotermini “ Luigi”, il mio futuro marito, ci innamoriamo. La cosa è bene accettata dai partigiani, meno dal Comando Supremo. Un bel giorno, era settembre, viene un ispettore e con molta delicatezza mi dice che è stato deciso che io debba tornare in pianura, fra le donne, al mio posto di comando. Obbedisco e scopro che nel frattempo il movimento è cresciuto. Le donne mi fanno festa e tutte chiedono della lotta in montagna, fanno domande, tutte vogliono sapere.

La sera, nelle stalle, insegno loro “Brigata Garibaldi” e le canzoni partigiane, questi inni così veri che anche sootovoce, nelle stalle, infiammano il cuore di chi ascolta. Arriva l’inverno e vengo a sapere che tutta la mia famiglia, mia madre, mia sorella, mio padre sono stati arrestati e deportati. Mio padre muore a Mauthausen. Mio fratello mi dicono che è stato fucilato, ma dopo la Liberazione torna da Mauthausen, in cadavere vivente come tutti quelli che sono tornati da lì. In quei momenti maturo molto. E’ con animo diverso che continuo la mia attività, non riesco neanche più a cantare. Mi pareva di non fare mai abbastanza! Con il mio compagno ci scambiamo qualche lettera, tramite le staffette, ma non sono le lettere di due ragazzi innamorati, sono lettere di due giovani coscienti di dover intensificare le loro lotta, lui in montagna, comandante pluridecorato, io in città.

Poi arriva il proclama di Alexander che dice che i partigiani devono tornare a casa. Ma i partigiani non tornano, chiedono aiuto a noi donne. E allora le donne fanno cose inimmaginabili, aumentano le manifestazioni, aumenta l’azione della pianura, non solo delle donne, anche degli uomini.

Per aiutare i combattenti lassù fanno cose straordinarie: decine di materassi furono sventrati, si filò la lana, confezionati guanti, calze, berretti, maglioni. Si raccolsero soldi da inviare, medicinali, sigarette e persino furono preparati dei dolci. Ad una riunione lanciai pure l’idea di mettere dei biglietti nelle maglie per incoraggiare quei ragazzi. Li conoscevo uno per uno ed ero affezionata a chi era rimasto. Ai primi di gennaio ricevetti l’ordine di proseguire il mio lavoro del gruppo di Difesa delle Donne a Milano. Partimmo una mattina, appena finì il coprifuoco, in bicicletta, con me c’era anche la compagna Zelinda Rossi di Bagnolo. A Milano c’era la neve, fu un inverno terribile.

A Piacenza il ponte non c’è più, ci trasportano i fascisti con le barche, noi diciamo che stiamo fuggendo perchè i partigiani stavano liberando l’Alta Italia. A Milano io e Zelinda ci separiamo: vengo presa in consegna da Rina Piccolato, che era una collaboratrice di Longo. Partecipo alla prima riunione dei Gruppi di Difesa, qui il livello è molto più alto, e non si parla di contadine, ma di fabbriche. Avrei diretto il IV e il V settore, che erano Porta Romana e Porta Vittoria. Fra i dirigenti di quel settore conosco “Lia” ( Gina Galeotti Bianchi) che viene uccisa il giorno della Liberazione – era incinta. A Milano la mia esperienza di lotta fu completamente diversa. Avevo alcune fabbriche sotto la mia direzione, ma quella che mi è rimasta più impressa fu la Centrale del Latte, con un gruppo di donne meravigliose. Ero a diretto contatto con le responsabili delle fabbriche, ci riunivamo una volta a settimana. Era marzo e si aveva la sensazione che stesse per finire. Veniva da noi una dirigente della lotta clandestina, ci disse che dovevamo organizzarci per l’assedio: inizialmente si pensava che a Milano ci sarebbe stato l’assedio, poi le cose andarono diversamente.

Organizziamo la Resistenza in appoggio alla lotta armata, e ci danno un bracciale bianco da mettere al braccio quando si comincia a sparare. Una notte, verso l’alba, sento sparare, metto il bracciale bianco e vado al posto convenuto, che era il Niguarda. Manca una compagna, “Lia”.

E qui finisce la mia lotta.

Da Patria Indipendente, 13 marzo 2011

QUEGLI ITALIANI SCONOSCIUTI

Quegli italiani sconosciuti finiti nei lager per motivi politici

22.204 uomini e 1.514 donne furono deportati nei lager nazisti per motivi politici.
Di questi 10.129 non tornarono. E’ il risultato di una ricerca promossa  nel 2003 dall’Aned (Associazione Nazionale Ex Deportati): per sei anni, sotto la direzione di Nicola Tranfaglia e Brunello Mantelli, i ricercatori del dipartimento di Storia dell’università di Torino (Francesco Cassata, Giovanna D’Amico, Giovanni Villari) hanno lavorato sugli archivi ufficiali dei campi di concentramento, dei ministeri dell’Interno di Austria e Germania e della Croce Rossa incrociando le informazioni con gli elenchi dei deportati che in questi decenni sono stati ricostruiti e conservati sia da singoli deportati e dalle loro associazioni, sia da istituti storici locali. Un lavoro metodico e puntuale, sostenuto dal contributo della Fondazione Compagnia di San Paolo e dall’assessorato Cultura della Regione Piemonte, che ha consentito di realizzare non solo il primo elenco sistematico dei deportati politici ma anche uno studio statistico sull’universo concentrazionario e sulle dinamiche che lo governavano. Nell’appendice statistica di 200 pagine che chiude il volume sono raccolte le cifre della tragedia. Il primo dato che emerge è che nessuna regione italiana è stata risparmiata. Antifascisti della prima ora, partigiani, prigionieri di guerra ma anche criminali abituali detenuti nelle carceri italiane e consegnati dalla Repubblica di Salò ai tedeschi, asociali, politici ebrei, lavoratori civili emigrati in Germania, cattolici: per ciascuna di queste categorie nei campi di sterminio c’era una sigla di identificazione.

Furono 11.432 quelli designati come Schutzhaftling (deportati per motivi di sicurezza), 3.723 come Politisch (in buona parte già presenti nel Casellario politico centrale dell’Italia fascista), 801 erano Azr, abbreviazione di Arbeitszwang Reich, ovvero «asociali», categoria di solito attribuita ai criminali comuni e in alcuni casi a soldati imprigionati dopo l’8 settembre.

Kfg, Kriegsgefangene erano i prigionieri di guerra;

Bv, Berufsverbrecher, criminali comuni;

altri Za, Zivilarbeit, lavoratori civili; Geistlicher, religiosi;

ol Jude o Schutz Jude erano gli ebrei considerati anche oppositori politici.

Le morti furono, sul totale, 10.129, una percentuale vicina al 50%, che arrivò al 55% nel lager di Mauthausen. Fu tuttavia Dachau, con 9.311 persone, il luogo con il maggior numero di deportati politici; a seguire, Mauthausen con 6.615, Buchenwald con 2.123, Flossenburg con 1.798, Auschwitz con 847 e via via gli altri campi.

Da questa ricerca è nato, neò 2009, un libro “ Il libro dei deportati. I deportati politici 1942-1945″, una monumentale opera che in 2.554 pagine raccoglie i nomi e i dati anagrafici dei deportati italiani nei lager nazisti, un libro  nato dalla volontà di due ex deportati, Bruno Vasari, sopravvissuto a Mauthausen e per anni presidente dell’Aned di Torino, che ha ideato il progetto di ricerca e da Italo Tibaldi che come responsabile della «Sezione ricerche» Aned ha promosso il censimento dei deportati e la predisposizione del primo archivio.

15 DICEMBRE: PER NON DIMENTICARE

IN RICORDO DI GIUSEPPE PINELLI

Giuseppe Pinelli (Milano, 21 ottobre 1928 – Milano, 15 dicembre 1969) è stato un anarchico e ferroviere italiano, animatore del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa e durante la Resistenza, vista la sua allora giovane età, staffetta nelle Brigate Bruzzi Malatesta. Nel mese di novembre del 1966 già militante anarchico, diede appoggio a Gennaro De Miranda, Umberto Tiboni, Gunilla Hunger, Tella e altri ragazzi del giro dei cosiddetti capelloni per stampare le prime copie della rivista Mondo Beat nella sezione anarchica “Sacco e Vanzetti” di via Murilio.
Morì il 15 dicembre 1969 precipitando da una finestra della questura di Milano, dove era trattenuto per accertamenti in seguito alla esplosione di una bomba a piazza Fontana, evento noto come Strage di Piazza Fontana.
Le circostanze della sua morte, ufficialmente attribuita ad un malore, hanno destato sospetto a causa di alcune circostanze legate ai momenti del tutto eccezionali vissuti nel capoluogo lombardo a seguito della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
Una parte dell’opinione pubblica ha avanzato il sospetto che Pinelli sia stato assassinato e che le indagini siano state condotte con metodi poco ortodossi ed in modo non imparziale. Tuttavia, l’inchiesta conclusa nel 1975 dal giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio ha escluso l’ipotesi dell’omicidio, giudicandola assolutamente inconsistente.
Il caso ha suscitato una polemica politica intrisa di vibrante animosità, tanto da parte di coloro che sostengono la tesi dell’omicidio, quanto da parte delle autorità, ed è peraltro assai arduo isolare la polemica riguardante questo caso da quelle relative, fra l’altro, alla strage di piazza Fontana, al Terrorismo, alla cosiddetta teoria della , al cosiddetto stragismo di stato, alla repressione dei circoli anarchici italiani ed all’assassinio del commissario Calabresi.
Il 1969 fu l’anno dell’autunno caldo, il momento di più alta unità e conflittualità operaia dalla nascita della Repubblica. Scioperi, picchetti, occupazioni delle fabbriche e cortei segnarono fortemente la seconda metà di quell’anno, in particolare per l’intensità dello scontro politico in atto che, alimentato da una diffusa ideologia rivoluzionaria dei gruppi della sinistra extraparlamentare nati dopo il Sessantotto, sfociava in violenti scontri di piazza.
In questo clima arroventato, sul finire del 1969, il 12 dicembre, nei locali della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano, lo scoppio di una bomba uccise numerose persone.
I fatti
La notte successiva alla strage la polizia fermò 84 sospetti, tra cui Pinelli, che venivano rilasciati man mano che il loro alibi veniva verificato. Tre giorni dopo, il 15 dicembre, Pinelli si trovava nel palazzo della questura, sottoposto ad interrogatorio da parte di Antonino Allegra e del commissario Luigi Calabresi, oltre che tre sottufficiali della polizia in forza all’Ufficio Politico, un agente, ed un ufficiale dei carabinieri, quando dalla finestra dell’ufficio dove stava avvenendo l’interrogatorio precipitò dal quarto piano in un’aiuola della questura. Fu portato all’ospedale Fatebenefratelli, ma ci arrivò già morto.[1]
La prima versione data dal questore Marcello Guida nella conferenza stampa convocato poco dopo la morte dell’anarchico, a cui parteciparono anche il dott. Antonino Allegra, responsabile dell’ufficio politico della questura e il Commissario Calabresi fu di suicidio (“Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto”, dalle dichiarazioni del questore[2]), dovuto al fatto che il suo alibi si era rivelato falso, versione poi ritrattata quando l’alibi di Pinelli si rivelò invece credibile[3][4]. Secondo alcune versioni iniziali della polizia, mai confermate, Pinelli precipitando avrebbe gridato l’ormai celebre frase: «È la fine dell’anarchia!».
Il fermo di Pinelli era illegale perché egli era stato trattenuto troppo a lungo in questura: il 15 dicembre 1969 (la data della sua morte) egli avrebbe dovuto essere libero oppure in prigione ma non in questura, infatti il fermo di polizia poteva durare al massimo due giorni. Il giorno successivo, 16 dicembre, in seguito alla comparsa di un testimone, un tassista, veniva arrestato Pietro Valpreda.
Le indagini sulla morte
Sulla morte di Giuseppe Pinelli si aprì una prima inchiesta che concluse con una archiviazione. Il 24 giugno 1971 la vedova Pinelli presentò una denuncia. Fu aperta una nuova inchiesta assegnata al giudice Gerardo D’Ambrosio. La sentenza dell’inchiesta sulla morte di Giuseppe Pinelli fu emessa nell’ottobre 1975. La sentenza concluse che la morte di Pinelli non era dovuta a suicidio o omicidio, ma a un malore che avrebbe provocato un involontario balzo del Pinelli dalla finestra della Questura. L’inchiesta accertò inoltre che nella stanza al momento della caduta erano presenti 4 agenti della polizia e un ufficiale dei carabinieri, che furono prosciolti. L’inchiesta della magistratura, condotta da D’Ambrosio, accolse le dichiarazioni dei coimputati, secondo i quali il commissario Calabresi non era presente nel momento della caduta. L’unico testimone, Pasquale Valitutti, anch’egli presente in Questura e trattenuto in una stanza vicina dichiarò sotto giuramento che al contrario il commissario era presente nella stanza da dove cadde Pinelli[5]. Gerardo D’Ambrosio scrisse nella sentenza: “L’istruttoria lascia tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento della morte di Pinelli”.[6]
L’assenza del commissario dalla stanza al momento della caduta di Pinelli non sarà tuttavia creduta da parte degli ambienti anarchici e della sinistra e lo stesso verrà fatto segno di una violenta campagna di stampa avente il risultato di isolarlo. Alla campagna di stampa, condotta in maniera assai forte, aderirono molti esponenti della sinistra italiana. Calabresi verrà assassinato nel maggio 1972, da aderenti alla sinistra extraparlamentare. L’assassinio del Commissario inciderà anche nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana.[7]
I fatti strani legati alla morte di Pinelli indussero molti a parlare, sempre più apertamente, di omicidio: Pinelli sarebbe stato gettato dalla finestra.
Le motivazioni
La prima ragione per credere all’omicidio sarebbe l’incoerenza della pulsione suicida con il carattere di Pinelli. Chi lo conosceva sostenne che fosse da escludere una sua eventuale propensione al suicidio. Secondo queste fonti, Pinelli non avrebbe preso in considerazione l’ipotesi del suicidio, neppure di fronte al pericolo di una condanna all’ergastolo per strage. Al momento della morte non si profilava comunque una condanna, data la mancanza assoluta di prove e l’inconsistenza degli indizi nei suoi confronti.
Valutazioni critiche
Tra i critici che mettevano in dubbio il verificarsi dei fatti come descritto della posizione ufficiale delle forze o dalla ricostruzione effettuata nel processo molti sostennero, pur non avendo ovviamente prove, ma solo ipotesi, che Pinelli fosse stato coscientemente defenestrato per usare il suo “suicidio” come prova della sua colpevolezza: la versione del suicidio fu effettivamente la prima versione data alla stampa dal questore Marcello Guida, nella conferenza stampa a cui parteciparono anche Calabresi e il dottor Antonino Allegra (responsabile dell’Ufficio politico della questura), versione poi ritrattata quando l’alibi di Pinelli, al contrario di quanto affermato durante la conferenza stampa stessa, si rivelò veritiero[8][3].
Pasquale Valitutti, un anarchico che era stato fermato insieme a Pinelli e si trovava in una stanza vicina[9] affermò sempre che non vide nessuno, dalla finestra della stanza, attraversare il corridoio nei quindici minuti antecedenti il fatto, e che dopo la caduta venne prelevato da due agenti: il commissario Calabresi in persona gli comunicò che l’anarchico si era buttato[5]. Valitutti fu immediatamente trasferito a San Vittore, dove verrà rilasciato il giorno dopo (anche per lui era scaduto il tempo massimo del fermo) senza essere stato interrogato. Quest’ultima testimonianza che, insieme ad alcuni errori e contraddizioni contenute nelle prime versioni date dalle forze dell’ordine[10], metteva in dubbio le affermazioni della polizia, venne ovviamente considerata credibile dai gruppi che ritenevano la morte di Pinelli causata dal tentativo di trovare un capro espiatorio per gli attentati di piazza Fontana. Valitutti sostenne anche di aver visto e di aver parlato alcune volte con Pinelli durante i due giorni, trovandolo provato per gli interrogatori e per la mancanza di sonno (sarebbe stato tenuto appositamente sveglio), sostenendo che Pinelli aveva anche affermato che il suo alibi non veniva creduto.
La sentenza del Tribunale di Milano afferma che tutti i coimputati e gli agenti presenti al quarto piano dell’edificio confermarono che il commissario Calabresi non si trovava nella stanza al momento del fatto e ritiene difficile escludere l’eventualità che Valitutti (unico testimone sotto giuramento) si fosse distratto per il tempo sufficiente ad una persona per attraversare la frazione di corridoio visibile dalla stanza.[11]
I dubbi sulla versione ufficiale
La versione ufficiale viene considerata inoltre, secondo le stesse fonti, contraddittoria ed incongruente: l’ambulanza sarebbe stata chiamata alcuni minuti prima della caduta, Pinelli non avrebbe urlato durante la caduta, avvenuta quasi in verticale (quindi probabilmente senza lo spostamento verso l’esterno che ci sarebbe stato se si fosse lanciato), pur avendo sbattuto contro i cornicioni, sulle mani non avrebbe avuto nessun segno che mostrasse tentativi (anche istintivi) di proteggersi dalla caduta, gli agenti presenti forniranno nel tempo versioni leggermente contrastanti sull’accaduto (in una di queste sostennero di essere riusciti ad afferrarlo, ma di non essere riusciti a trattenerlo, motivando quindi la caduta in verticale senza spostamento dovuto all’eventuale slancio) e infine le dimensioni della stanza, la disposizione dei mobili e delle sedie per l’interrogatorio avrebbero reso difficile gettarsi dalla finestra in presenza di poliziotti. Secondo una delle diverse versioni date dalla Questura, nel tentativo di trattenere Pinelli per impedire la caduta dalla finestra, nelle mani di un poliziotto sarebbe rimasta una scarpa del ferroviere, che sarebbe quindi una prova del fatto che i tentativi di trattenerlo erano avvenuti, ma in realtà quando il ferroviere fu raccolto sul selciato indossava ancora entrambe le scarpe.
Riguardo l’ora della precipitazione, la sentenza cita le testimonianze dei quattro giornalisti presenti nella sala stampa della questura, concordi nell’affermare che il fatto avvenne qualche minuto prima della mezzanotte, informazione definita assolutamente certa. La sentenza poi afferma che l’ambulanza fu

chiamata alle 00:01, in base all’ora trascritta sul registro delle richieste di intervento pervenute alla centrale operativa del corpo dei vigili urbani.[11]
Le illazioni sulle persone coinvolte
Uno degli argomenti addotti su cui vengono fatte molte illazioni è la qualità dei soggetti coinvolti, cioè delle 5 persone che erano nella stanza con Pinelli.[12]
Luigi Calabresi era noto per il suo lavoro di contrasto politico alle formazioni di estrema sinistra (fra cui Lotta Continua).
In un primo momento vennero indicati come sospetti gli avanzamenti di grado di alcuni ufficiali ritenuti anch’essi coinvolti nella misteriosa morte, tra cui l’ex fascista Marcello Guida, direttore delle guardie dei carceri di Ventotene (l’isola dove vennero segregati gli anarchici prima di esser trasferiti nel campo di concentramento di Renicci d’Anghiari, in provincia di Arezzo)[13] e Santo Stefano durante il ventennio anche se si accertò poi che si trattava semplicemente di ordinari avanzamenti per anzianità.
La seconda autopsia
Alcuni organi di stampa, tra cui Lotta continua (n. 12, 14/05/1970) sostenevano che la salma di Pinelli presentasse una lesione bulbare compatibile con quelle che può provocare un colpo di karate. Peraltro, una lesione bulbare avrebbe provocato la morte immediata di Pinelli, il quale è invece deceduto due ore dopo la caduta dalla finestra.
In seguito a tali polemiche, nel 1975, la salma di Pinelli venne riesumata e analizzata. In realtà nella prima perizia necroscopica non si parlava di una lesione bulbare, ma di “un’area grossolanamente ovolare” conseguenza del contatto del cadavere con il marmo dell’obitorio. Fu fatta quindi una seconda autopsia che confermò il risultato della prima.
Il caso venne quindi chiuso attribuendo la morte di Pinelli ad un malore attivo, secondo la sentenza del giudice Gerardo D’Ambrosio: lo stress degli interrogatori, le troppe sigarette a stomaco vuoto unito al freddo che proveniva dalla finestra aperta avrebbero causato un malore e Pinelli, invece di accasciarsi come nel caso di un collasso, avrebbe subito un’alterazione del centro di equilibrio, che causò la caduta.
La controinchiesta delle Brigate Rosse
La Strage di Piazza Fontana, la morte di Pinelli, l’assassinio del commissario Calabresi, furono oggetto di una contro-inchiesta delle Brigate Rosse. L’inchiesta fu fatta dall’interno del movimento della sinistra extraparlamentare, approfittando di collegamenti interni al Movimento della Sinistra. Le conclusioni dell’inchiesta indussero le Brigate Rosse a secretarla. Nel 1974, in un covo delle Brigate Rosse, a Robbiano, fraz. di Mediglia, i fascicoli della Contro-inchiesta vennero alla luce. Il ROS dei carabinieri su richiesta della Commissione Stragi effettuò una ricerca sugli elementi delle inchieste. Il 19 luglio 2000 rispose. Fu accertato che degli elementi riguardanti La Strage di Piazza Fontana solo una cassetta registrata era stata inviata a Catanzaro, sede del processo per la strage. Fu possibile ricostruire gran parte degli elementi riguardanti le altre inchieste, solo la controinchiesta su Piazza Fontana non fu possibile ricostruire.

CIAO NORI

Chi l’ha conosciuta non può dimenticare il suo sorriso, la sua dolcezza. Era dolce, Nori Brambilla, ma dietro la sua dolcezza nascondeva il coraggio e la fermezza di una donna eccezionale. Nori Brambilla, nome di battaglia Sandra, antifascista, entra nella Resistenza a venti anni, come staffetta partigiana nei GAP, a fianco del comandante Pesce, “Visone”, l’uomo che amerà e al cui fianco resterà per tutta la vita.

Una storia della Resistenza raccontata al femminile. Una grande storia d’amore per il suo Giovanni, il suo comandante, di cui s’innamora a prima vista. Poi le azioni partigiane ( volevo andare a combattere, ma siccome era bella hanno pensato che sarei stata più utile come staffetta in città), i poliziotti che le portano la borsa della spesa dentro cui erano nascoste le armi, i marò della San Marco che la fermano a porta Ludovica , il tradimento, l’arresto e le torture, e infine la deportazione nel lager di Bolzano.

“Perchè le ragazze, ai miei tempi, non potevano uscire da sole di sera ( con il coprifuoco, poi…) ma io ho detto ai miei che andavo a fare la Resistenza, e i miei mi hanno dato il permesso.

” Io credo che la Resistenza l’abbiano cominciata le donne, perchè gli uomini dovevano scegliere se andare a combattere al fronte oppure in montagna coi partgiani, ma le donne potevano starsene tranquille, invece no, hanno scelto di lottare per combattere il Fascismo. Fu anche l’occasione per affermare quei diritti che non avevamo mai avuto. Mai come allora ci siamo sentite pari agli uomini.“.

La ricorderemo sempre, insieme a tutti coloro verso i quali siamo in debito, ai tanti partgiani che ci hanno insegnato il significato della parola “coraggio” e della parola “dignità”.

NORI BRAMBILLA PESCE

«Avevamo tutti un nome di battaglia, io mi ero scelto Sandra; ho fatto una ricerca: mentre gli uomini partigiani si sceglievano nomi fantasiosi, Tarzan, Saetta, Lupo, la maggior parte delle ragazze avevano nomi normali…Elsa… ecco, il massimo era Katia!»[1]
Di famiglia antifascista e comunista, abita con i genitori e la sorella Wanda in una casa di ringhiera ai Tre Furcei, quartiere operaio di Lambrate a Milano. Il padre Romeo, “specializzato” alla Bianchi, fabbrica di biciclette, rifiuta di prendere la tessera del partito fascista; ne conseguono anni di disoccupazione e miseria.
Con la guerra di aggressione all’Abissinia, nel 1935, viene però a mancare la mano d’opera ed è assunto alla Breda. La madre Maria (il suo nome di battaglia negli anni della Resistenza sarà Tatiana) insegna alle figlie Onorina e alla più piccola Wanda a dubitare della propaganda del regime; è operaia, prima alla Agretta, nota per le bibite, e poi alla Safar che produce radio: «Aveva una voce così bella che veniva chiamata a cantare per testare certi microfoni». Desidera per la figlia l’istruzione che la allontani dal duro lavoro della fabbrica.
Onorina frequenta per tre anni una scuola professionale; le piacerebbe continuare a studiare ma i genitori possono solo iscriverla a un corso trimestrale di stenodattilografia dopo il quale, a 14 anni, deve cercare un lavoro.
Viene assunta dalla Paronitti come impiegata: «Non arrivavo neanche alla scrivania e i colleghi mi chiamavano Topolino.)

Onorina rimane in quella ditta 4 anni, ma viene licenziata nel 1941 a causa di un diverbio con il padrone. Trova presto un nuovo impiego in una ditta che produce binari, è incaricata di compilare un inventario, frequenta i capannoni annotando tutto, conosce gli operai, impara a individuare chi è antifascista e chi no. Comincia a studiare l’inglese al Circolo Filologico di Via Clerici: in quella biblioteca circolano ancora, incredibilmente, molti libri vietati dal regime, preziosi per la sua formazione.
La fame si fa sempre più sentire, la gente non ne può più, la guerra toglie il velo a tutte le menzogne della propaganda di regime. La caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 coglie la gente di sorpresa, festa e disorientamento sono tutt’uno, i carri armati vengono usati per disperdere la folla. Nell’Agosto 1943 Milano viene bombardata. Dopo l’Armistizio dell’8 Settembre 1943 (in effetti una resa senza condizioni), i tedeschi occupano Milano, è finita una guerra ma ne sta iniziando un’altra. I soldati dell’esercito Italiano abbandonano le divise, molti diventano partigiani; i Gruppi di Difesa della Donna (che arrivano a mobilitare, fino all’aprile ’45, almeno 24.ooo donne) si occupano di procurare loro denaro, cibo, vestiti; il compito di Onorina è distribuire la stampa clandestina. Desidera raggiungere in montagna una Brigata Garibaldi, ma la sua amica Vera (nome di battaglia di Francesca Ciceri, comunista) le presenta Visone (Giovanni Pesce) che sarà il suo Comandante e futuro marito. Lui la convince a combattere nella propria città, e Onorina a marzo 1944 lascia il lavoro. “Sandra” diventa Ufficiale di collegamento del III°GAP “Egisto Rubini”, equivalente al grado di sottotenente dell’Esercito Italiano, decisamente più che una staffetta. Con la sua bicicletta Bianchi color azzurro cielo trasporta armi, munizioni ed esplosivo, passa spesso, con il cuore in gola, in mezzo ai rastrellamenti nazifascisti. Sono le staffette a portare le armi e a prenderle in consegna dopo un’azione per evitare che i gappisti vengano sorpresi armati e fucilati sul posto. C’erano le rappresaglie ma, cosa avremmo dovuto fare? Smettere la lotta? In ogni caso i nazifascisti non avrebbero cessato di fare quello che facevano. Non ho mai provato pena per chi colpivamo. La guerra non l’avevamo voluta noi. Loro ogni giorno fucilavano, deportavano, torturavano. Si dovevano vincere due cose, la pietà e la paura.»
Il 24 giugno 1944 nella “battaglia dei binari” alla stazione di Greco, un bersaglio di straordinaria importanza, Sandra è il collegamento tra i ferrovieri e i gappisti e con la compagna Narva porta i 14 ordigni che, piazzati nei forni di combustione delle locomotive scoppiano simultaneamente; l’azione dei Gap viene citata da Radio Londra.
Il 12 Settembre 1944, a 21 anni, tradita da un partigiano passato al nemico (“Arconati”, Giovanni Jannelli) viene catturata dalle SS nei pressi del Cinema Argentina, nel cuore di Milano. Inizia la prigionia, la sofferenza, il distacco dalla famiglia, la tortura e la violenza fisica subita dalle SS nella Casa del Balilla di Monza, trasformata in carcere. n attesa dell’interrogatorio cerca di farsi coraggio. Ai gappisti arrestati il Comando chiede di resistere 24 o 48 ore per permettere ai compagni di mettersi in salvo. L’interrogatorio è terribile, vogliono che lei consegni Visone, ore e ore di percosse, torture. Non parla, nessuno dei suoi compagni è compromesso.
Rimane in isolamento totale nel carcere di Monza due mesi, giornate lunghe e vuote, non può comunicare con l’esterno o ricevere notizie. È trasferita a San Vittore per soli due giorni e, l’11 novembre 1944, caricata, con altri prigionieri, su un pullman senza conoscere la destinazione.
Viene imprigionata a Bolzano in un campo di transito. Ancora oggi non si spiega perché le 500 prigioniere politiche che lì si trovavano non furono mai deportate in Germania, diversamente dalle altre 2700 donne che dall’Italia raggiungeranno i campi di concentramento. Mantiene contatti epistolari con la madre, la rassicura sul suo stato fisico e psicologico, riesce persino a scherzare: «se non fosse perché abbiamo sempre fame sembrerebbe una villeggiatura…»   esterni. I tedeschi, prima di fuggire, le rilasciano persino un documento che attesta la prigionia e grazie al quale riuscirà in seguito a dimostrare la sua deportazione.
Milano era stata liberata dei Partigiani e dall’insurrezione popolare il 25 aprile. Onorina decide di non attendere l’arrivo degli americani; con alcuni compagni, sotto la neve, si inerpica sul passo della Mendola, attraversa la Val di Non e il Tonale; si fermano la notte presso i contadini ai quali chiedono cibo e riparo, sono d’aiuto i posti di ristoro dei partigiani delle Fiamme Verdi. Finalmente un pullman fornito dai comuni della zona fino a Ponte di Legno, li porta da lì a Lovere; poi in treno fino a Milano, Stazione Centrale: era il 7 maggio 1945. Con un’assurda “normalità” arriva a Lambrate, a casa, con il tram n. 7. Dalla finestra, vicina a Wanda, guarda emozionata la manifestazione dei Partigiani, rivede Visone, corre in strada, si abbracciano. Nori (come la chiamerà il marito) e Giovanni Pesce, finalmente liberi, si sposano il 14 luglio 1945, non possiedono niente, solo gioia per la ritrovata libertà e speranza per una nuova vita.

Nori Brambilla Pesce è stata Responsabile della Commissione femminile dell’ANPI, Presidente dell’Associazione ex perseguitati politici italiani antifascisti per la sede di Milano e Presidente onorario A.I.C.V.A.S., l’Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna.
«Si vuole falsificare la Resistenza, lo chiamano revisionismo ma spesso è falsificazione della storia. Noi siamo stati impegnati per tutta la vita per difendere la libertà-

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