Da: Il Ribelle

“La nostra rivolta non data da questo o da quel momento, non va contro questo o quell’uomo, non mira a questo o quest’altro punto del programma: è rivolta contro un sistema e un’epoca, contro un modo di pensiero e di vita, contro una concezione del mondo.

Oggi noi, i superstiti, raccogliamo l’insegna caduta e nuovamente l’agitiamo alta, ribelli al tacito accondiscendere, ribelli alla supina accettazione, ribelli all’infame compromesso mortificatore degli animi e delle coscienze.

Lottiamo per una più vasta e fraterna solidarietà degli spiriti e del lavoro, nei popoli e fra i popoli, anche quando le scadenze paiono lontane e i meno tenaci si afflosciano: a denti stretti anche quando il successo immediato non conforta del teatro degli uomini, perché siamo consapevoli che la vitalità d’Italia risiede nella nostra costanza, nella nostra volontà di resurrezione, di combattimento, nel nostro amore.

Chi non rispetta in sé e negli altri l’uomo, ha l’anima di schiavo….

 

Non vi sono “liberatori”, solo uomini che si liberano.”

Teresio Olivelli

NON PIU’ SCHIAVI MA FRATELLI

COMO, PIAZZA VITTORIA –  11 GENNAIO 2015 – ORE 14,45

 

NON PIU’ SCHIAVI MA FRATELLI
 
Partenza alle 15 da piazza Vittoria, arrivo alle 17 in piazza Grimoldi. A seguire, interventi e concerti.
“Durante la marcia ascolteremo le voci di chi agisce per la Pace “.
Organizzano: Diocesi di Como, Coordinamento Comasco per la Pace, Acli Como, Unione degli Studenti, Emergency (gruppo Como), Teranga, Ass. BurkinabU¨, Chiese Pentecostali Ganesi e Nigeriane, Sprofondo, Libera, Legami, Camera del Lavoro – CGIL Como, CISL, UIL, Scout Agesci Cantù e Como, Garabombo, La Vela dell’ Arca, Erga Omnes.
Con il patrocinio del Comune di Como

 

 

IL SOVRANO IN ITALIA E’ LO STATO, NON IL POPOLO

Zagrebelsky: il sovrano in Italia è lo Stato, non il popolo

Alcune riflessioni di introduzione ad un importante testo del costituzionalista G. Zagrebelsky.

Il Partito Democratico di Renzi non è in grado e non vuole risollevare le sorti del Paese, sempre più avvitato in una crisi economica e sociale gravissima, destinata a destabilizzare, alla fine, anche il quadro politico ed istituzionale. 

Di “democratico” il partito al governo ha ben poco. In una democrazia “normale” il Capo dello Stato, dopo una sentenza della Corte Costituzionale che sancisce l’incostituzionalità della legge elettorale, avrebbe indotto il Parlamento a riscrivere, rapidamente, una legge elettorale costituzionale e avrebbe, subito dopo, sciolto il Parlamento e indetto nuove elezioni.

Nulla di tutto questo, invece, è accaduto e viviamo l’inaccettabile situazione di un Parlamento politicamente delegittimato che sta radicalmente modificando la Costituzione, per altro in senso nettamente oligarchico e antidemocratico.  Il Governo, per altro, attacca i residui diritti dei lavoratori con il famigerato Job act, che non produrrà un solo posto di lavoro in più, aumenterà lo sfruttamento del lavoro e renderà sempre più obsoleto il nostro sistema industriale.

Questa lettura della fase politica attuale è avvalorata da una importante riflessione di Zagrebelsy, che mette in luce la problematicità della sentenza con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità della legge elettorale voluta dalla destra. Riporto solo una parte del testo, che potete leggere per intero cliccando qui.

Uno dei problemi più complessi della sentenza riguarda la legittimità o meno di un Parlamento eletto con una legge incostituzionale; e la legittimità del Parlamento porta con sé anche la legittimità di tutto il suo operato. Scrive l’A., tirando le fila del proprio ragionamento: “Quando si guarda dietro alle parole, si vede che dietro lo Stato stanno forze politiche e si può concludere con l’inquietante constatazione che la sentenza della Corte, liberandole dal vincolo della Costituzione, ne ha legittimato la nuda forza, priva di diritto, e ha de-costituzionalizzato la politica.” 

Il lettore permetterà una chiosa: non creda, infatti, che il problema sia “la politica” ; non creda, come si ostina a sottolineare il Corriere della sera, cioè la “migliore” borghesia nostrana, che il problema è la “casta politica”. La politica, in effetti, non è che l’espressione di ben precisi e precisabili appetiti economici e sociali, quegli stessi appetiti che con la crisi economica colgono l’occasione per il consolidamento del proprio potere. 

LM

 

La Corte non sembra porsi problemi troppo difficili, poiché essa ritiene che, comunque, tutto resti fermo e valido, sia con riguardo agli atti anteriori che a quelli posteriori alla sua sentenza, sulla base o del “fatto concluso” o della “continuità dello Stato”. Ad abundantiam, la sentenza mette insieme al principio di continuità dello Stato due norme costituzionali (gli artt. 61, comma 2, e 77, comma 2) che riguardano la perduranza di funzioni di Camere regolarmente elette fino al momento in cui subentrano le successive. Sono riferimenti inconferenti, tuttavia, perché hanno a che vedere con specifiche, prevedibili e quindi, in questo senso, normali esigenze di continuità, ma certamente non riguardano (anzi, potrebbero essere interpretate esattamente a contrario) la situazione abnorme, aberrante, di Camere prive di titolo conforme alla Costituzione.
Il ricorso al principio di continuità dello Stato, nei termini della sentenza che si commenta, è definito “devastante” da Lanchester. All’evidenza, ci deve essere stato qualche disagio nello scrivere questa parte della motivazione nella quale abbondano inconsuete parole d’auto-sostegno, quasi in funzione di difesa preventiva: non solo l’ “oltre ragionevole dubbio”, anche un “è evidente”, un “è appena il caso di ribadire”, un “vale appena ricordare”: tutte espressioni che, se fosse davvero così, non avrebbero avuto ragione d’essere state scritte. Siamo di fronte, infatti, nientemeno che alla contraddizione del principio in base al quale possiamo dire di vivere in uno “stato costituzionale” e non, semplicemente, in uno “Stato che ha una costituzione” o sotto una “costituzione dello Stato”. Con linguaggio preciso: Verfassungsstaat contro Staatsverfassung. Lo “Stato che ha una costituzione” è quello cui si attribuisce una sostanza politica, un’esistenza reale e autonoma che precede e, dunque, condiziona la Costituzione. La sua massima è rex facit legem. L’esistenza d’una costituzione è soltanto un’eventualità: importante ma non essenziale. L’essenziale è lo Stato. Se tra la Costituzione e lo Stato si crea una contraddizione, allora la costituzione cede allo Stato e lo Stato può scrollarsi di dosso l’ingombro rappresentato da una legge ch’esso stesso, per tempi più tranquilli, si è data. Chi è il sovrano? È lo Stato, come dice implicitamente la Corte, o è la Costituzione (o il popolo che agisce nelle forme e nei limiti della Costituzione) come dice l’art. 1, comma 2 Cost. e come pretende la tradizione del costituzionalismo alla quale diciamo di appartenere, la quale si riconosce nella massima contraria lex facit regem? Quando si guarda dietro alle parole, si vede che dietro lo Stato stanno forze politiche e si può concludere con l’inquietante constatazione che la sentenza della Corte, liberandole dal vincolo della Costituzione, ne ha legittimato la nuda forza, priva di diritto, e ha de-costituzionalizzato la politica.
Sorge la domanda: fino a quando la Costituzione, che pure ha mostrato il suo volto nella parte sostanziale della sentenza potrà essere lasciata da parte? Fino a quando? Fino a «nuove consultazioni elettorali», dice la Corte. Pace fa osservare che ciò non significa, di per sé, «fino alla scadenza normale della legislatura» (Senato della Repubblica. Commissione affari costituzionali, Audizione. 13 maggio 2014). Nel mondo della politica, invece, le nuove consultazioni s’intendono quelle alla scadenza quinquennale, a meno dello scioglimento anticipato delle Camere cui si addivenga per ragioni indipendenti dalla sentenza della Corte che ne ha sancito l’illegittimità costituzionale. Ma, se questo Parlamento, prima della sua scadenza (come appare ben possibile, se non probabile, guardando i primi passi della riforma elettorale voluta dal governo) approvasse una legge incostituzionale tanto quanto quella annullata dalla Corte e sulla base di questa legge si andasse a votare, varrebbe ancora la dottrina della continuità dello Stato per sanare il vizio costitutivo del Parlamento successivo? In realtà, la risposta al “fino a quando” è incerta; potrebbe essere: fino a quando piacerà a chi è al governo. Il principio di continuità dello Stato proietta la sua ombra molto lontano. Ecco dove porta il realismo di cui la Corte ha dato prova nella parte finale della sua sentenza: un realismo contro la Costituzione. Almeno, se avesse taciuto e non avesse trasfigurato un argomento fattuale in argomento di diritto costituzionale e non l’avesse trasformato in dottrina giuridica positiva, non avrebbe sollevato dalle loro responsabilità coloro che avevano — e hanno — il compito di provvedere quanto prima possibile al ripristino della normalità costituzionale.
La dottrina medievale e poi i padri del costituzionalismo moderno distinguevano due tipi di tirannia: ex defectu tituli e quoad exercitium. La distinzione è perenne e vale anche nel nostro caso. Nel diritto monarchico, il titulus legittimo stava nell’accertata discendenza regale; nel diritto democratico, sta nella regolare investitura elettiva. Quando l’azione dei governanti (l’exercitium) è benefica, si passa facilmente sopra la questione dell’origine del loro potere (il titulus). Ma, quando benefica non è più, è inevitabile che i cittadini si domandino il perché dell’obbligazione politica, cioè si chiedano quale ragione c’è di ubbidire a uno che, oltre che non benefico, è anche abusivo. In epoca monarchica, le controversie sulla legittima successione erano la fonte dei contrasti politici più acuti. La stessa cosa, cambiati gli addendi, non c’è motivo perché non si possa riprodurre in epoca democratica. Meglio fermarsi qui.

ANNIVERSARIO DI TERESIO OLIVELLI

TREMEZZO APRE LE CELEBRAZIONI PER L’ANNO 2015

 

11 GENNAIO: COMMEMORAZIONE  DI  TERESIO OLIVELLI

TREMEZZO (CO).- Per iniziativa della parrocchia di Tremezzo e dell’ANPI, domenica 11 gennaio si terrà la commemorazione della Medaglia d’ Oro Teresio Olivelli, nel doppio anniversario della sua  nascita ( 7 gennaio 1916) e della morte ( 17 gennaio 1945).

PROGRAMMA DELLA COMMEMORAZIONE:

Domenica 11 gennaio: ritrovo alle 10.45 sul sagrato della chiesa parrocchiale di San Lorenzo, a Tremezzo

ore 11.00, S.Messa, al termine recita della Preghiera per la Beatificazione; verrà  quindi fatto brevemente il punto sull’iter della causa di beatificazione, tuttora al vaglio della Congregazione per le Cause dei Santi a Roma;

sarà  particolarmente gradita la partecipazione degli Alpini con i labari e i loro canti di montagna;

quindi corteo in uscita dalla chiesa fino al vicino monumento a Olivelli, dove avrà  luogo la commemorazione anche civile, con discorsi delle autorità  comunali e delle rappresentanze militari, posa di corone, lettura della “Preghiera del Ribelle” composta da Olivelli durante la latitanza e benedizione da parte del parroco don Luca Giansante.

Giova ricordare che la cerimonia costituirà  soltanto l’apertura di un anno di eventi per commemorare il giovane martire della carità , eventi in fase di definizione che comprenderanno ad esempio la ripulitura del monumento a lui dedicato, opera dell’accademico Cassina.

Analoghe iniziative sono già  in corso nella Diocesi di Vigevano, di cui la famiglia era originaria e da cui ha avuto avvio circa trent’anni or sono la causa di beatificazione del giovane Teresio: nativo di Bellagio e nipote dell’allora arciprete di Tremezzo don Rocco Invernizzi, fu studente modello, grande sportivo, attivista convinto dell’Azione Cattolica, quindi volontario in Russia dove come ufficiale Alpino si adoperò per i compagni durante la disastrosa ritirata; al rientro in patria si unì alla Resistenza fondando tra l’altro il giornale clandestino “Il Ribelle”, fino all’arresto, alla deportazione in Germania e alla tragica morte nel lager di Hersbruck, ammazzato di botte per i suoi continui interventi in aiuto e in difesa dei compagni di prigionia. Lo si ricorda anche come autore della Preghiera dell’Alpino e della Preghiera del Ribelle (“Signore facci liberi”) adottata dalle formazioni partigiane.

info: tel. 0344.40288.

IL PARTIGIANO TERESIO OLIVELLI

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Teresio Olivelli

Nato a Bellagio il 7 gennaio 1916, di carattere ardente, generoso e impetuoso, Teresio Olivelli frequentò le prime classi elementari a Bellagio e sucessivamente a Zeme (PV), nella casa paterna dove ritornò con la famiglia in seguito a problemi economici. Rimase però sempre legato al suo Lario, dove trascorse ogni anno le vacanze estive in casa dell’amatissimo zio, parroco di Tremezzo. Studente brillantissimo, dopo il Ginnasio a Mortara (PV) e il Liceo a Vigevano, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia, come alunno del prestigioso collegio Ghislieri.

Laureatosi nel novembre 1938, si trasferì all’Università di Torino come assistente della cattedra di diritto amministrativo. Qui Olivelli iniziò una stagione di intenso impegno socio-culturale, caratterizzato dallo sforzo di inserirsi criticamente all’interno del fascismo, con il proposito di influirne la dottrina e la prassi, mediante la forza delle proprie idee ispirate alla fede cristiana. Questo tentativo di “plasmare” il fascismo fu finalizzato unicamente ad affrontare un’emergenza: la costruzione di una società migliore. Nel 1939 vinse i Littorali ( manifestazioni culturali destinate a giovani universitari)  sostenendo la tesi che fonda la pari dignità della persona umana, a prescindere dalla razza.

Chiamato a Roma presso l’Istituto Nazionale di studi e di ricerca, divenne segretario dell’Istituto di Cultura fascista, dove però operò effettivamente per soli otto mesi. Due soggiorni in Germania bastarono a far nascere in lui le prime diffidenze verso il Regime. Nonostante ciò, allo scoppio della guerra, decise di partire per il servizio militare. E’ in corso una guerra imposta al Paese, il quale deve subire; Teresio Olivelli, con il suo carattere fiero e coraggioso, non volle considerare dall’alto di un ufficio e con distacco la maturazione degli eventi, ma desiderò inserirsi in essi, con eroica abnegazione. In particolare, fu fermamente determinato a stare con i soldati, la parte più esposta e quindi più debole del popolo italiano in lotta.

Nel 1940 venne nominato ufficiale degli alpini: come sottotenente di complemento della Divisione “Tridentina”. Successivamente, Olivelli chiese di andare volontario nella guerra di Russia. Era pervaso da un’idea dominante: essere presente fra quanti si spingono o sono spinti nell’avventura del dolore e della morte.

Nel vedere gli orrori della ritirata dell’ VIII Armata italiana, Olivelli si fece sempre più critico e distante nei confronti del fascismo, vedendone le aberrazioni attuate dalla brutale logica di guerra.

Sopravvissuto alla disastrosa ritirata, mentre tutti cercavano una via di fuga e di salvezza, egli si fermò a soccorrere ii soldati feriti, con personale gravissimo rischio. Tanti alpini salvati e rientrati in Italia gli devono la vita.

Nella primavera del 1943, decise di abbandonare definitivamente la brillante carriera “romana” e ritornò a dedicarsi all’educazione dei giovani come rettore del collegio Ghislieri, dove aveva studiato, avendo vinto il concorso al quale si era presentato prima di partire per il fronte russo. Aveva solo 26 anni, fu il più giovane rettore d’Italia.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 Olivelli, che con il 2° Reggimento Artiglieria alpina si trovava di stanza a Vipiteno, venne fatto prigioniero dai tedeschi. Rifiutatosi di combattere al fianco dei nazisti, venne arrestato e deportato in Germania. Il 20 ottobre riuscì però ad evadere dal campo di Markt Pongau e raggiunse Udine dopo una lunga fuga solitaria. Ospitato da un famiglia friulana giusto il tempo di riprendersi, il giovane aderì alla Resistenza bresciana., collaborando alla costituzione delle “Fiamme Verdi”, formazioni partigiane di impronta cattolica.

Nel febbraio 1944 fondò il giornale “ Il Ribelle” e, pur nella clandestinità, elaborò programmi di ricostituzione della società dopo la tragedia del fascismo e della guerra.

Nelle pagine de “Il Ribelle” egli esprime il suo concetto di Resistenza; essa è “rivolta dello spirito” alla tirannide, alla violenza, all’odio; rivolta morale diretta a suscitare nelle coscienze il senso della dignità umana, il gusto della libertà.

Scrisse in quel periodo la famosa preghiera “Signore facci liberi”, comunemente detta “Preghiera del ribelle”; in questo testo egli definì se stesso e i suoi compagni “ribelli per amore”

Venne arrestato a Milano il 27 aprile 1944. A San Vittore comincia il calvario delle torture, che continuano nel campo di Fossoli.  L’ 11 luglio 1944 il suo nome fu inserito nella lista di 70 prigionieri che dovevano essere fucilati il giorno successivo, ma anche questa volta Olivelli riuscì a fuggire, nascondendosi nei magazzini del campo. Scoperto, dopo diversi tentativi di fuggire da Fossoli ,venne deportato nel campo Bolzano-Gries, e quindi in Germania, a Flossenburg e poi a Hersbruck. Sulla sua casacca venne cucito, insieme al triangolo rosso dei politici, anche il disco rosso cerchiato di bianco dei prigionieri che hanno tentato la fuga, e che quindi devono ricevere un trattamento più duro e spietato, se possibile.

Potrebbe, data la sua conoscenza del tedesco, avere accesso ad un lavoro meno duro, ma ancora una volta il suo desiderio di stare con gli ultimi, di aiutare i più disperati, lo spinse a dare tutto sé stesso per la salvezza degli altri, esercitando il dovere della carità verso il prossimo fino all’eroismo, intervenendo sempre in difesa dei compagni percossi, rinunciando alla razione di cibo in favore dei più deboli e malati.

Resistette coraggiosamente e senza mai piegarsi alla repressione nazista, difendendo la dignità e la libertà. Questo atteggiamento suscitò nei suoi confronti l’odio dei capi baracca, che di conseguenza gli inflissero dure e continue percosse. Ai primi di gennaio del 1945, intervenuto in difesa di un giovane prigioniero ucraino brutalmente pestato, venne colpito con un violento calcio al ventre, in conseguenza del quale morì il 17 gennaio 1945, a soli 29 anni.

Il suo corpo fu bruciato nel forno crematorio di Hersbruck.

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