Zagrebelsky: il sovrano in Italia è lo Stato, non il popolo
Alcune riflessioni di introduzione ad un importante testo del costituzionalista G. Zagrebelsky.
Il Partito Democratico di Renzi non è in grado e non vuole risollevare le sorti del Paese, sempre più avvitato in una crisi economica e sociale gravissima, destinata a destabilizzare, alla fine, anche il quadro politico ed istituzionale.
Di “democratico” il partito al governo ha ben poco. In una democrazia “normale” il Capo dello Stato, dopo una sentenza della Corte Costituzionale che sancisce l’incostituzionalità della legge elettorale, avrebbe indotto il Parlamento a riscrivere, rapidamente, una legge elettorale costituzionale e avrebbe, subito dopo, sciolto il Parlamento e indetto nuove elezioni.
Nulla di tutto questo, invece, è accaduto e viviamo l’inaccettabile situazione di un Parlamento politicamente delegittimato che sta radicalmente modificando la Costituzione, per altro in senso nettamente oligarchico e antidemocratico. Il Governo, per altro, attacca i residui diritti dei lavoratori con il famigerato Job act, che non produrrà un solo posto di lavoro in più, aumenterà lo sfruttamento del lavoro e renderà sempre più obsoleto il nostro sistema industriale.
Questa lettura della fase politica attuale è avvalorata da una importante riflessione di Zagrebelsy, che mette in luce la problematicità della sentenza con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità della legge elettorale voluta dalla destra. Riporto solo una parte del testo, che potete leggere per intero cliccando qui.
Uno dei problemi più complessi della sentenza riguarda la legittimità o meno di un Parlamento eletto con una legge incostituzionale; e la legittimità del Parlamento porta con sé anche la legittimità di tutto il suo operato. Scrive l’A., tirando le fila del proprio ragionamento: “Quando si guarda dietro alle parole, si vede che dietro lo Stato stanno forze politiche e si può concludere con l’inquietante constatazione che la sentenza della Corte, liberandole dal vincolo della Costituzione, ne ha legittimato la nuda forza, priva di diritto, e ha de-costituzionalizzato la politica.”
Il lettore permetterà una chiosa: non creda, infatti, che il problema sia “la politica” ; non creda, come si ostina a sottolineare il Corriere della sera, cioè la “migliore” borghesia nostrana, che il problema è la “casta politica”. La politica, in effetti, non è che l’espressione di ben precisi e precisabili appetiti economici e sociali, quegli stessi appetiti che con la crisi economica colgono l’occasione per il consolidamento del proprio potere.
LM
La Corte non sembra porsi problemi troppo difficili, poiché essa ritiene che, comunque, tutto resti fermo e valido, sia con riguardo agli atti anteriori che a quelli posteriori alla sua sentenza, sulla base o del “fatto concluso” o della “continuità dello Stato”. Ad abundantiam, la sentenza mette insieme al principio di continuità dello Stato due norme costituzionali (gli artt. 61, comma 2, e 77, comma 2) che riguardano la perduranza di funzioni di Camere regolarmente elette fino al momento in cui subentrano le successive. Sono riferimenti inconferenti, tuttavia, perché hanno a che vedere con specifiche, prevedibili e quindi, in questo senso, normali esigenze di continuità, ma certamente non riguardano (anzi, potrebbero essere interpretate esattamente a contrario) la situazione abnorme, aberrante, di Camere prive di titolo conforme alla Costituzione. Il ricorso al principio di continuità dello Stato, nei termini della sentenza che si commenta, è definito “devastante” da Lanchester. All’evidenza, ci deve essere stato qualche disagio nello scrivere questa parte della motivazione nella quale abbondano inconsuete parole d’auto-sostegno, quasi in funzione di difesa preventiva: non solo l’ “oltre ragionevole dubbio”, anche un “è evidente”, un “è appena il caso di ribadire”, un “vale appena ricordare”: tutte espressioni che, se fosse davvero così, non avrebbero avuto ragione d’essere state scritte. Siamo di fronte, infatti, nientemeno che alla contraddizione del principio in base al quale possiamo dire di vivere in uno “stato costituzionale” e non, semplicemente, in uno “Stato che ha una costituzione” o sotto una “costituzione dello Stato”. Con linguaggio preciso: Verfassungsstaat contro Staatsverfassung. Lo “Stato che ha una costituzione” è quello cui si attribuisce una sostanza politica, un’esistenza reale e autonoma che precede e, dunque, condiziona la Costituzione. La sua massima è rex facit legem. L’esistenza d’una costituzione è soltanto un’eventualità: importante ma non essenziale. L’essenziale è lo Stato. Se tra la Costituzione e lo Stato si crea una contraddizione, allora la costituzione cede allo Stato e lo Stato può scrollarsi di dosso l’ingombro rappresentato da una legge ch’esso stesso, per tempi più tranquilli, si è data. Chi è il sovrano? È lo Stato, come dice implicitamente la Corte, o è la Costituzione (o il popolo che agisce nelle forme e nei limiti della Costituzione) come dice l’art. 1, comma 2 Cost. e come pretende la tradizione del costituzionalismo alla quale diciamo di appartenere, la quale si riconosce nella massima contraria lex facit regem? Quando si guarda dietro alle parole, si vede che dietro lo Stato stanno forze politiche e si può concludere con l’inquietante constatazione che la sentenza della Corte, liberandole dal vincolo della Costituzione, ne ha legittimato la nuda forza, priva di diritto, e ha de-costituzionalizzato la politica. Sorge la domanda: fino a quando la Costituzione, che pure ha mostrato il suo volto nella parte sostanziale della sentenza potrà essere lasciata da parte? Fino a quando? Fino a «nuove consultazioni elettorali», dice la Corte. Pace fa osservare che ciò non significa, di per sé, «fino alla scadenza normale della legislatura» (Senato della Repubblica. Commissione affari costituzionali, Audizione. 13 maggio 2014). Nel mondo della politica, invece, le nuove consultazioni s’intendono quelle alla scadenza quinquennale, a meno dello scioglimento anticipato delle Camere cui si addivenga per ragioni indipendenti dalla sentenza della Corte che ne ha sancito l’illegittimità costituzionale. Ma, se questo Parlamento, prima della sua scadenza (come appare ben possibile, se non probabile, guardando i primi passi della riforma elettorale voluta dal governo) approvasse una legge incostituzionale tanto quanto quella annullata dalla Corte e sulla base di questa legge si andasse a votare, varrebbe ancora la dottrina della continuità dello Stato per sanare il vizio costitutivo del Parlamento successivo? In realtà, la risposta al “fino a quando” è incerta; potrebbe essere: fino a quando piacerà a chi è al governo. Il principio di continuità dello Stato proietta la sua ombra molto lontano. Ecco dove porta il realismo di cui la Corte ha dato prova nella parte finale della sua sentenza: un realismo contro la Costituzione. Almeno, se avesse taciuto e non avesse trasfigurato un argomento fattuale in argomento di diritto costituzionale e non l’avesse trasformato in dottrina giuridica positiva, non avrebbe sollevato dalle loro responsabilità coloro che avevano — e hanno — il compito di provvedere quanto prima possibile al ripristino della normalità costituzionale. La dottrina medievale e poi i padri del costituzionalismo moderno distinguevano due tipi di tirannia: ex defectu tituli e quoad exercitium. La distinzione è perenne e vale anche nel nostro caso. Nel diritto monarchico, il titulus legittimo stava nell’accertata discendenza regale; nel diritto democratico, sta nella regolare investitura elettiva. Quando l’azione dei governanti (l’exercitium) è benefica, si passa facilmente sopra la questione dell’origine del loro potere (il titulus). Ma, quando benefica non è più, è inevitabile che i cittadini si domandino il perché dell’obbligazione politica, cioè si chiedano quale ragione c’è di ubbidire a uno che, oltre che non benefico, è anche abusivo. In epoca monarchica, le controversie sulla legittima successione erano la fonte dei contrasti politici più acuti. La stessa cosa, cambiati gli addendi, non c’è motivo perché non si possa riprodurre in epoca democratica. Meglio fermarsi qui.
|