Collaborazionismo femminile nazifascista
Intervista a Roberta Cairoli autrice del testo Dalla parte del nemico. Ausiliarie, delatrici e spie nella Repubblica sociale italiana (1943-1945), Milano-Udine, Mimesis, 2013, pp. 262, euro 20.
Il tema del “collaborazionismo femminile nazifascista” è stato finora poco affrontato dalla storiografia. Quali sono le ragioni di questo ritardo? Le ragioni sono diverse: la dispersione e la frammentarietà delle fonti; il “policentrismo” della Repubblica sociale italiana; la scomparsa o il silenzio delle protagoniste di quel periodo, spinte dal desiderio di rimuovere un’esperienza finita male o di occultare un passato scomodo e, non ultima, la reticenza degli storici a trattare un fenomeno ritenuto, a torto, marginale unita alla difficoltà di decifrare un microcosmo femminile così complesso. Va detto, inoltre, che per lungo tempo, la storiografia ha espulso i fascisti di Salò dalla storia d’Italia persuasa, come ha sottolineato Claudio Pavone, che la Rsi – rubricata come governo fantoccio – andasse combattuta ed eliminata ut sic, in blocco, senza preoccuparsi di indagare a fondo le differenze esistenti nel corpo del nemico e i margini di consenso di cui poteva aver goduto.
Nel libro viene compiuta una rilettura del Servizio ausiliario femminile e, in particolare, dell’immagine che dell’ausiliaria ci è stata trasmessa dalla pubblicistica di Salò e dalla memorialistica dei reduci. Quale realtà emerge dalla documentazione che hai analizzato? La pubblicistica di Salò e la memorialistica successiva maschile e femminile hanno veicolato un modello ideale di militante fascista, l’ausiliaria, una donna giovane, dall’ardente fede patriottica, dalla moralità ineccepibile e, soprattutto non armata, non violenta, una sorta di eroina o di martire che si è sacrificata sull’altare della Patria. Ciò ha prodotto, da un lato, la cancellazione delle responsabilità individuali, depoliticizzando la scelta di servire la causa della Rsi e dell’occupante tedesco, dall’altro, la rimozione di un protagonismo femminile “altro, non riconducibile, cioè, alla categoria delle ausiliarie. La lettura incrociata del materiale d’archivio ci consente, invece, di misurare lo scarto tra realtà e rappresentazione/autorappresentazione. Le carte processuali e la documentazione proveniente dall’Ufficio di controspionaggio dell’Oss (Office of Strategic Services), in particolare, svelano la presenza e il ruolo per nulla marginale svolto dalle ausiliarie nei servizi informativi e negli apparati repressivi fascisti e tedeschi, tanto da rendere difficile, in non pochi casi, distinguerle dalle collaborazioniste, non irreggimentate nel Saf, responsabili dell’arresto, della tortura e dell’uccisione di antifascisti, partigiani ed ebrei o coinvolte nelle azioni di rastrellamento e nelle pratiche di violenza contro partigiani e civili. Pensiamo, inoltre, che il Saf costituì il principale serbatoio di reclutamento delle “agenti segrete” arruolate e addestrate dai tedeschi per compiere missioni di spionaggio, sabotaggio e controspionaggio nel territorio italiano occupato dagli Alleati.
Le collaborazioniste hanno agito prevalentemente come delatrici e spie, segnando spesso drammaticamente, come hai appena detto, la sorte di partigiani, civili ed ebrei. Chi erano queste donne? E quali moventi stanno alla base delle loro azioni? In base a un criterio di rappresentatività, ho inquadrato le delatrici in tre categorie: quelle ideologicamente motivate che aderirono alla Rsi, iscrivendosi al Pfr (Partito fascista repubblicano) o militando nel Servizio ausiliario femminile (Saf) o nei Fasci femminili repubblicani, donne che non avevano, nella maggior parte dei casi, la percezione soggettiva della delazione: smascherare, denunciare, consegnare e punire “i traditori della Patria” era considerato naturale, giusto e legittimo; la seconda categoria comprende donne “comuni”, diverse fra loro per età, provenienza sociale e culturale, condizioni familiari: più presenti e libere di muoversi sul territorio, meno sospette e sospettabili degli uomini, seppero intrecciare le pratiche del quotidiano con un’abile attività informativa. Furono spinte ad agire da moventi diversi, “amor di patria”, ammirazione per i tedeschi, odio ideologico, denaro, fame, gelosie, invidie, rancori personali, spirito di vendetta e desiderio di rivalsa sociale; infine, per ultime, le donne vicine al movimento partigiano che, una volta arrestate, cedettero per paura o sotto il peso di un ricatto. Certamente, l’apporto informativo più prezioso fu fornito da soggetti organicamente inseriti in strutture deputate a svolgere attività di spionaggio politico e militare e di controspionaggio, come, ad esempio, le agenti degli Upi (Uffici politici investigativi) della Gnr o dell’Sd (Sicherheitsdienst), il servizio di informazione e di spionaggio delle SS. In gran parte si trattava di donne “di provata fede fascista”, iscritte al pfr o provenienti dai servizi ausiliari femminili, o donne allettate dalla possibilità di arricchirsi facilmente e rapidamente. D’altra parte, al lavoro informativo potevano aggiungersi compiti operativi: operazioni di rastrellamento contro i partigiani, armi in pugno, identificazione delle vittime da destinare alla fucilazione, o partecipazione agli interrogatori e alle torture.
In che misura gli stereotipi sul femminile hanno influito sul giudizio di condanna pronunciato dalle Corti d’assise straordinarie? Come venivano rappresentate e come si autorappresentavano le imputate di collaborazionismo? Agli occhi delle Corti, l’essere donna poteva costituire, a seconda del crimine commesso o della rispondenza o meno a un certo immaginario femminile, un’attenuante o un’aggravante. Emerge abbastanza chiaramente l’incapacità delle Corti di andare oltre le rappresentazioni culturali e sociali del comportamento femminile. Scorrendo, infatti, le sentenze si coglie una tendenza generale a ridimensionare e a sminuire le responsabilità femminili, attribuendo alle donne una minore capacità di giudizio. La debolezza del soggetto femminile incapace di autodeterminazione apparve in molte situazioni il terreno condiviso dagli avvocati difensori e dalle imputate stesse che si autorappresentavano come vittime di circostanze superiori o inconsapevoli dell’atto compiuto. Come ha sottolineato Natalie Zamon Davis, le donne, in quanto “sesso lussurioso, disordinato e instabile”, non sono state ritenute complessivamente responsabili del loro operato. Sono state così assolte più facilmente degli uomini per la stessa condotta, anche se tale condotta era violenta. È pur vero che le donne furono sottoposte a una sorta di “doppio processo”: il riferimento alla dubbia condotta morale e alla trasgressione sessuale delle collaborazioniste fu una costante, costituendo spesso un’aggravante all’accusa. Tuttavia, il giudizio sulla moralità finì, in qualche caso per offuscare o sottovalutare la gravità dei crimini commessi.
La Corte Suprema di Cassazione ha quasi sempre ribaltato le sentenze di condanna in primo grado, mitigando la pena o assolvendo le imputate. Quanto ha pesato “l’amnistia Togliatti” sulla loro scarcerazione? L’ «amnistia Togliatti» – entrata in vigore il 22 giugno 1946 – o meglio, la sua interpretazione estensiva da parte dei giudici, spalancò di fatto le porte del carcere a molte fasciste condannate dalle Corti d’assise straordinarie che già si erano viste ridurre notevolmente la pena dalla Corte di Cassazione. Nei processi celebrati in primo grado o finiti in Cassazione dopo l’entrata in vigore dell’amnistia, la maggior parte delle donne coinvolte anche in gravi fatti di delazione verranno amnistiate, a meno che non fosse provato lo scopo di lucro, “causa ostativa all’applicazione del provvedimento”. Tra riduzioni e condoni furono pochissimi comunque gli anni di carcere. Di fatto, l’amnistia suggellò il fallimento dell’epurazione, e mi trovo d’accordo con Franzinelli nel dire che fu il dispositivo chiave per dare un colpo di spugna alle responsabilità fasciste.
[Rosa Mucerino per ecoinformazioni]