ANCORA SUL LIBRO DI LUZZATTO

Riprendiamo l’argomento del libro di Luzzatto ” Partigia”( ed. Mondadori) di cui abbiamo già trattato nel post del 16 aprile scorso sul nostro sito, per pubblicare la recensione di Alberto Cavaglion apparsa sulla Stampa di Torino ieri, 2 giugno 2013 e segnalataci da Luca Michelini.

Alberto Cavaglion scrive:

Il libro di Sergio Luzzatto su Primo Levi – Partigia, pubblicato da Mondadori poco più di un mese fa – ha riaperto una pagina di storia e spalancato una polemica storica su un episodio della Resistenza soltanto in parte sconosciuto. Primo Levi, lo scrittore simbolo della deportazione degli ebrei, un’icona letteraria e civile nel mondo intero, custodiva un «segreto brutto». Lo stesso Levi adopera questa espressione nel Sistema periodico (1975), dove confessa – trent’anni dopo i fatti e in anni in cui non era certo agevole rivelare questi retroscena – di essere stato costretto dalla propria coscienza insieme con i suoi compagni a «eseguire una condanna ». Cosa che lasciò lui e i suoi «distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse».

Luzzatto ha lavorato per anni intorno a questo segreto e in Partigia ne ha svelato contorni e protagonisti, dopo aver interrogato testimoni e consultato le carte. Ma come lui stesso ammette, senza arrivare a una conclusione certa del perché ai due giovani partigiani fucilati «con metodo sovietico» (una raffica nella schiena) era stata inflitta una condanna così grave. La conclusione dello storico (pag. 89) è che «le fonti disponibili» autorizzano a ritenere «smisurata» la pena rispetto all’entità delle colpe. Insomma i due (Fulvio Oppezzo, 18 anni, di Casale, e Luciano Zabaldano, 17, di Torino) sarebbero stati fucilati non proprio per «futili motivi», ma quasi. Una conclusione che ha aperto una controversia intorno all’esperienza partigiana di Primo Levi e, in definitiva, gettato un’ombra sulla sua figura.

Ma è proprio così? Davvero non erano rintracciabili altre «fonti storiche »? Nella biblioteca regionale di Aosta e in quella comunale di Brusson si può facilmente consultare un libretto ignorato da Luzzatto e, finora, anche dagli altri che si sono occupati del caso. Si tratta della «petite chronique» del curato Adolphe Barmaverain, Demi-siècle de vie paroissiale à Brusson, (Imprimerie Valdôtaine, 1970) dove abbiamo trovato la seguente nota: «Le 17 décembre 1943, à Fontaines, en les domiciles de Révil Cécile, est trouvée cadavre Mme Polkorny Elsa, 65 ans, de Vienne (juive) suicidée ensuite de vexation e de menaces de partisans. La voix courut que ces partisans auraient été fusillés par leur chef venu à la connaissance de ces vexations». Il parroco di quei luoghi ci racconta dunque un altro pezzo della storia mancato a Luzzatto: i partigiani furono fucilati dal loro capo perché avevano vessato e minacciato un’anziana ebrea viennese rifugiata in Valle al punto di spingerla al suicidio. I diari dei curati di montagna sono fonti primarie per gli storici e stupisce che Luzzatto non l’abbia cercato per la sua indagine pur dettata – dice lui – da una personale «ossessione» per la vicenda di Primo Levi.

Con ciò non pretendiamo di aver scoperto la verità su una vicenda così tormentata e segreta. A distanza di tanti anni, con i residui testimoni che lo stesso Luzzatto ha interpellato, o immemori o tuttora reticenti, in assenza di altri documenti attendibili, non è affatto sicuro che il diario risolva il caso, ma certo apre una prospettiva diversa. Non solo l’esecuzione dei due, per quanto crudele, non appare più tanto smisurata: il motivo non era certo «futile» e probabilmente anche tutto il travaglio che Levi rivela nel racconto del Sistema periodico va letto in altro modo.

Allora, rivediamo un po’ i fatti. Primo Levi, ventiquattrenne, il 9 settembre ’43 era sfollato da Torino a Saint-Vincent. Pochi giorni dopo sarà raggiunto dalla madre e dalla sorella AnnaMaria. In seguito si trasferiranno ad Amay, vicino al Col de Joux, tra Saint-Vincent e Brusson, dove, come è stato bene studiato in anni passati, già prima dell’8 settembre avevano trovato rifugio molti ebrei stranieri, per lo più croati,ma anche tedeschi, austriaci. Vivevano nella clandestinità e dunque erano esposti a vessazioni. Levi entra in contatto con altri giovani torinesi anch’essi sfollati, tutti appartenenti al suo giro di amici. E danno vita a una piccola formazione che si propone di aderire a Giustizia e Libertà. È un’esperienza breve, che in toni tutt’altro che apologetici lo stesso Levi evoca nel primo capitolo di Se questo è un uomo: «Mancavano i contatti, le armi, i quattrini e l’esperienza per procurarseli, mancavano gli uomini capaci… ».Quelle settimane sono inoltre segnate da contrasti con una più numerosa formazione di giovani provenienti da Casale Monferrato, ben diversi dal piccolo gruppo di intellettuali e borghesi torinesi di cui faceva parte Levi. Tra i casalesi vi erano personaggi equivoci, lo racconta Luzzatto, includendo tra essi anche uno dei due che saranno fucilati, Fulvio Oppezzo, una testa calda, nipote e figlio di gerarchi fascisti, fascistissimo egli stesso, finito chissà perché tra i partigiani. Tutto precipita nella notte del 13 dicembre. In un rastrellamento la banda di Amay viene catturata grazie a due infiltrati e all’opera di un sinistro figuro di doppiogiochista, Edilio Cagni, braccio destro del prefetto fascista di Aosta Cesare Augusto Carnazzi.

Pochi giorni dopo anche la banda dei casalesi è costretta a disperdersi e verrà eliminata. Levi, catturato, viene trasferito ad Aosta, si dichiara ebreo e viene inviato a Fossoli e poi ad Auschwitz. Nel 1973 Levi pubblica sul Mondo un racconto intitolato Oro, poi confluito due anni dopo nel Sistema periodico, nel quale è contenuta per la prima volta la rivelazione del «segreto brutto». Più tardi, nella poesia Partigia, che dà il titolo al libro di Luzzatto, Levi sembra alludere nuovamente a quel fatto: «Quale nemico? Ognuno è nemico di ognuno». Senza entrare nel dettaglio, némai rivelare il nome o i nomi di coloro che avevano subito la condanna, Levi racconta quanto era accaduto soltanto tre giorni prima del suo arresto: «Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi;ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente. Adesso eravamo finiti, e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era uscita se non all’in giù». «Avarizia narrativa», insinua Luzzatto, il quale dimentica però di dare una spiegazione convincente a quell’ «eravamo stati costretti dalla nostra coscienza»: una frase che, riletta adesso, con il diario del curato inmano, assume un diverso significato.

Il fuoco della vicenda non è soltanto la fucilazione di Oppezzo e Zabaldano, ma si aggiungono anche le vessazioni e le minacce con le quali i due avevano spinto un’anziana ebrea al suicidio. E c’è da immaginare che queste pratiche fossero piuttosto diffuse tra quegli acerbi partigiani che Levi, nella prima edizione einaudiana di Se questo è un uomo (1958) descrive così: «… un diluvio di gente squalificata, in buona e in mala fede…». E, d’altra parte, ancora Levi, nella poesia Epigrafe (pubblicata nel 1984), scritta sul modello di Spoon River, attribuisce a uno dei due giustiziati queste parole: «Da non molti anni qui giaccio io, Micca partigiano / spento dai miei compagni per mia non lieve colpa». Il diario del curato di Brusson conferma: non fu certo una lieve colpa e francamente non si capisce perché Luzzatto – pur citando la poesia – insista nei quasi «futili motivi». E così pure la frase «conforme a giustizia», con cui Levi, sempre nel primo capitolo di Se questo è un uomo, chiude in negativo il bilancio della sua esperienza partigiana, andrebbe adesso riletta in modo più completo, restituendo a ciascuno il suo. Invece anche questa viene citata da Luzzatto in esclusiva funzione di supporto alla sua tesi e riferita unicamente all’esecuzione dei due partigiani, quando andrebbe messa in rapporto a quell’intera esperienza: «A quel tempo, non mi era ancora stata insegnata la dottrina che dovevo più tardi rapidamente imparare in Lager, e secondo la quale primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga; per cui non posso che considerare conforme a giustizia il successivo svolgersi dei fatti».

Certo Levi avrebbe certo potuto, e forse dovuto, gridare di più. Ma ammissioni di colpa così esplicite non risulta siano state scritte, nemmeno da protagonisti della Resistenza che avevano avuto responsabilità maggiori delle sue. Negli Anni Settanta il tema della violenza era un vero tabù. La storia mitizzata della lotta di Liberazione aveva completamente obliterato il fatto; i due giustiziati vennero considerati «martiri», anzi i primi due caduti in Valle d’Aosta, naturalmente per mano dei nazifascisti e non certo per fuoco amico. Il diario del curato non scioglie l’enigma, ma dirada la nebbia e costituisce una pista concreta, rispetto a mere illazioni. Apre nuovi scenari e, soprattutto, chiarisce il contesto in cui Levi venne a trovarsi. Il vero lavoro rimane adesso da iniziare. Domande numerose attendono risposta. Barmaverain non dice quando sia realmente morta l’anziana ebrea. E poi: chi era Elsa Polkorny? Il suo fu vero suicidio? Levi era a conoscenza delle vessazioni che aveva subito Madame Polkorny e che avrebbe potuto subire sua madre, anch’essa sfollata al Col de Joux? Sono questioni concrete, su cui adesso occorrerà indagare senza pregiudizi.

Riaperta una pagina di storia, in anni in cui i tabù sono (finalmente) caduti, si può lavorare liberi da tutti i sospetti, compreso quello di aver voluto colpire l’icona di Primo Levi con l’obiettivo di mettere sul banco degli imputati, un santo beatificato da una storiografia di chierichetti devoti. E evitare operazioni editoriali dettate da questa smania di rimpicciolire tutto, che purtroppo domina il nostro tempo, «quell’inqualificabile piacere», di cui parlava Robert Musil, «che consiste nel vedere il bene abbassarsi e lasciarsi distruggere con meravigliosa facilità».


Ed ecco la testimonianza, apparsa sul mensile ” Pagine Ebraiche” di un compagno di Primo Levi, Guido Bonfiglioli, anche lui partigiano nell’autunno 1943.

Professor Bonfiglioli, lei è stato un caro amico di Emanuele Artom, di Primo Levi, un protagonista della Resistenza, poi un fisico brillante, un docente universitario apprezzato sulle due sponde dell’Oceano, un romanziere coraggioso ancora da scoprire. Eppure questa intervista si è resa possibile solo dopo interminabili tentativi, grazie a un incontro quasi clandestino in una sperduta località di montagna che richiama la sua esperienza di clandestinità. In un mondo in cui tutti parlano troppo lei ha scelto il silenzio. Perché?

Primo nei suoi libri non ha raccontato solo la sua storia, ma anche la vicenda di tutta la nostra generazione, di quei ragazzi ebrei che le leggi razziste del 1938, le persecuzioni e tutto quello che ne è seguito hanno legato per sempre. Non ho altro da aggiungere, se non la mia diffidenza e la mia denuncia per quello che è diventata l’Italia di oggi.

Sa che proprio in queste settimane vi sono storici che hanno voluto scavare proprio nella breve vicenda di Primo Levi partigiano, forse nella speranza di fare sensazione, secondo alcuni per gettare un’ombra sulle scelte drammatiche che toccarono a voi allora?

Lo so, e lo trovo penoso. Rileggere la storia per adattarla ai propri comodi, alle esigenze contemporanee, per costruire tesi, seminare sospetti. Non lo posso accettare.

Quando e come incontrò Primo Levi per l’ultima volta prima della sua cattura e della deportazione?

Ci siamo visti nel dicembre del 1943 al Col di Joux, dalle parti di Amay sopra Saint Vicent, dove aveva trovato un alloggio assieme a Luciana Nissim e Vanda Maestro. Eravamo due ragazzi di 24 anni, non certo dei combattenti professionisti. Ma ognuno di noi aveva preso la sua strada. La nostra conoscenza del territorio e di quelle montagne fu probabilmente determinante nel segnare il destino. Ormai avevo fatto la mia scelta e militavo nel grande nucleo di Giustizia e Libertà che controllava il territorio fra la riva destra della Dora e il confine con la Svizzera. Cercai di fargli capire che restare sulla riva sinistra della Dora, per di più in una località facilmente raggiungibile con gli automezzi, era una grande imprudenza, ma non riuscii a convincerlo. Pochi giorni dopo fu catturato e accadde quello che milioni di lettori di Se questo è un uomo conoscono bene.

Oggi si dice che in quelle settimane nei territori controllati dai partigiani avvennero oscuri episodi, esecuzioni sommarie, regolamenti di conti.

Certo che avvennero, e come avrebbe potuto essere altrimenti? In mezzo ai combattenti, nella confusione generale si trovavano malfattori, delatori, infiltrati di ogni genere. I partigiani dovevano necessariamente mantenere l’ordine e soprattutto salvaguardare la fiducia della popolazione locale. Ricordo che furono emesse vere e proprie condanne e nel caso di noi GL, nonostante le difficoltà, si trattò di regolari processi che impegnarono altissimi magistrati italiani entrati nella Resistenza. Ma Primo con queste storie non aveva proprio nulla a che vedere. Non era un ideologo e non era un estremista. Era un ragazzo pacifico, sensibile e delicato che gli eventi avevano gettato in un inferno. Ciononostante quando lo incontrai era sereno e per quanto riguarda questi aspetti terribili della lotta partigiana lo trovai per quanto possibile sereno anche quando lo rividi a Torino nel 1945. Alla prova dei fatti, se furono traditi così come lo furono, non si erano nemmeno difesi abbastanza.

Intervista di Guido Vitale.


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