MUSSO: 26 MARZO

ANPI Dongo – Museo della Resistenza Comasca – Istituto di Storia Contemporanea P.A. Perretta Associazione Cittadini Insieme

organizzano la mostra:

 

DAL PANE NERO AL PANE BIANCO

L’alimentazione in Italia
tra fascismo, guerra e Liberazione

 

MUSSO – EX FABBRICA SALICE, VIA STATALE

SABATO 26 MARZO, ORE 15

 

La mostra resterà aperta da sabato 26 marzo al 8 aprile

 

Orari: sabato e domenica dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18

Dal lunedì al venerdì aperti su prenotazione.

Ingresso libero

ARGENTINA – 40 ANNI FA LA JUNTA

24 MARZO 1976 – 24 MARZO 2016

Questo 24 marzo segna il 40° anniversario del colpo di stato militare, che portò a una sistematica repressione senza precedenti nella storia dell’Argentina.

30.000 “desaparecidos”, più di 4.000 morti, centinaia di migliaia di esuli, il furto di più di 500 bambini nati da madri rapite e poi uccise e un clima generale di costante terrore in tutto il paese. I luoghi scelti per reprimere erano dei centri clandestini, più di 300. In questi luoghi le persone rapite venivano sistematicamente torturate per poi essere uccise, molto spesso gettate in mare da aerei nei cosiddetti “voli della morte”.

PER DIRE MAI PIU’, PER RICORDARE

PRESIDIO PER LA MEMORIA LA VERITA’ E LA GIUSTIZIA

MILANO, PIAZZA DELLA SCALA, ORE 18,30

 

 

24 marzo 1976, militari al potere. L’inizio della “guera sucia”

Il Primo luglio 1974 muore Juan Domingo Peron, ad un anno di distanza dal suo ritorno al potere alla Casa Rosada. Il personaggio politico di riferimento di un’intera Nazione muore forse nel momento peggiore per la Nazione. Al suo posto successe la terza moglie, nonché vicepresidente, Isabel Martinez, la quale continuerà l’opera del marito, anche se non all’altezza di governare un Paese instabile, in crisi e con un pesante clima di violenza interna.
Senza dubbio la persona che la influenzò, in peggio, fu l’allora Ministro del Welfare, José Lopez Rega. Lopez Rega era a capo della Tripla A (Alianza Anticomunista Argentina), un’organizzazione paramilitare neofascista molto influente in Argentina negli anni Settanta grazie agli investimenti che il suo fondatore le girava, invece di destinarli al ministero di propria competenza, allo scopo di portare il Paese in un clima di instabilità politica e civile, dando il là ad un golpe militare.
Triplo A è stata accusata di oltre 400 omicidi di persone appartenenti alla sinistra tra il 1973 e il 1975, mentre nello stesso periodo anche “da sinistra” avvennero minacce ed omicidi per mano dell’”Esercito Rivoluzionario del Popolo” (di matrice trotkista e montonerista), il quale usava la guerriglia urbana in contrapposizione al Triplo A.
Dinnanzi a questo quadro di instabilità e recrudescenza, il golpe militare non poteva che palesarsi, anche perché Isabelita Peron nel 1975 promosse il tenente generale Jorge Rafael Videla ministro degli Interni, rafforzando ancora di più una piega militare nelle “stanze dei bottoni”. Una situazione che ricordava molto la “strategia della tensione” in Italia, solo che dinnanzi a ciò il golpe era pressoché logico: il 24 marzo 1976 la Peron fu destituita e al potere andò la Junta capitanata da tre esponenti delle forze militari argentine, vale a dire lo stesso Videla per l’Esercito, Emilio Eduardo Massera per la Marina, Orlando Ramon Agosti per l’Aeronautica.
I militari evitarono la “dissoluzione naturale del Paese” e si presero ciò che gli spettava, ovvero la funzione di garanti dell’unità e dell’ordine nazionale. Da allora, e fino al 1983, si alterneranno ben quattro “governi” che cercarono di realizzare il “Processo di Riorganizzazione Nazionale”, macchiandosi di efferati delitti politici e portando il Paese all’isolamento internazionale.
Questo “Proceso” fa rima con “guerra sporca”, per i metodi biechi e violenti che lo contraddistinsero. Il generale Videla è stato il vero leader della Junta, primo “Presidente a vita” dell’Argentina e capo di questa fino al 1981, quando fu sostituito da un colpo di stato interno alla stessa Junta per motivi di potere.
Dal quel momento iniziava anche la “guera sucia”, la “guerra sporca”, un conflitto non armato che questi militari intrapresero contro tutti coloro che non erano affini alle politiche governative, subendo sequestri, violenze, torture e morte, poiché considerati nemici del Paese. Studenti, sindacalisti, lavoratori e donne furono colpiti da quest’ondata di violenza ed oltre 30mila di loro persero la vita in circostanze mai del tutto chiare, soprattutto, mai alla luce del sole.
Questa operazione di “pulizia” rientrava, insieme all’alleanza strategica tra i servizi segreti argentini con gli omologhi cileni ed americani (DINA e CIA), nella cosiddetta “operazione Condor”, onde evitare il proliferare di governi di sinistra filo-marxista in un’area, quella Sudamericana, da sempre sotto protezione americana (in base alla “dottrina Monroe”), il cosiddetto “giardino di casa”, per evitare che a tutto il subcontinente toccasse la stessa fine del Cile nel novembre 1970, quando fu eletto Capo dello Stato il socialista Salvador Allende, destituito l’11 settembre 1973 dal golpe del generale Augusto Pinochet, coadiuvato dalla CIA. Esperienze come queste potevano estendersi piano piano anche a tutti gli altri Paesi latini, come accadde con l”effetto domino” asiatico.
Naturalmente, il pericolo comunista era solo uno slogan, poiché il Partito Comunista argentino aveva un peso molto irrilevante e l’unica “sinistra” ufficiale nel Paese era espressa dagli esponenti di sinistra del peronismo stesso.

Dal sito tuttostoria.net

Per saperne di più, leggi anche:http://www.edscuola.it/archivio/interlinea/notte_argentina.htm

 

24 MARZO- FOSSE ARDEATINE

GIOVEDI’ 24 MARZO RICORRE IL 72° ANNIVERSARIO DELLA STRAGE ALLE FOSSE ARDEATINE DI ROMA, UNO DEI PIU’ TERRIBILI EPISODI DELL’ OCCUPAZIONE NAZIFASCISTA.

 

In questa paine riproduciamo un documento con la struggente testimonianaza di una teste al processo Kappler, che si concluse con la condanna del tenente colonnello delle SS.

DAL CARCERE ALLE CAVE ARDEATINE
deposizione del teste – Avv. Eleonora Lavagnino

Ventiquattro marzo ore 14. Il III braccio presentava il normale aspetto dell’ora particolarmente tranquilla. I vari servizi erano già stati eseguiti e solo alle 16 sarebbe passata la pulizia del pomeriggio e vi sarebbe stato il movimento di infermeria.
Chiesi ed ottenni di recarmi al gabinetto per il lavaggio delle gavette, concessione questa riservata alle donne secondo gli umori dei posten.
Rimasi al gabinetto per circa un quarto d’ora ed al mio ritorno, nel nel percorrere il ballatoio del primo piano, notai che al piano terreno, innanzi agli uffici, erano stati ammassati una ventina di uomini. Mi soffermai e detti un’occhiata in giro. Tre o quattro coppie di tedeschi muniti di una lunga lista andavano di cella in cella e costringevano gli uomini ad uscire, secondo I’elenco da essi tenuto, ed a scendere in gran fretta al pian terreno, dove venivano allineati. Tali uomini erano senza pacchi, quindi, pensai non poteva trattarsi di una partenza, benché proprio di quei giorni tutti ne aspettassero una.

Avevo frattanto raggiunto le prime celle occupate dalle donne. In una di esse il dott. Luigi Pierantoni, tenente medico, facente parte dell’organizzazione militare del P d A, che, arrestato da circa 40 giorni era riuscito a far organizzare uno speciale servizio di infermeria per i detenuti del III braccio.
Il dott. Pierantoni, accompagnato dall’infermiere tedesco, un certo Willy (anch’esso detenuto per essesi allontanato senza permesso dal posto) e da uno dei posten di servizio era intento a fare una iniezione.Proprio sulla porta della cella rimasta aperta mi incontrai con due agenti della feld polizei i quali con l’elenco in mano richiedevano del Pierantoni.

 A questi non fu concesso terminare la sua opera, ma, preso per un braccio, fu sospinto con l’usuale loss, loss. Benché non eccessivamente pratica, rimasi meravigliata in quanto tali agenti, non facevano parte delle due squadre che abitualmente facevano servizio e che, ad onor del vero, erano relativamente gentili con il dottore. Mi trassi indietro per lasciare passare e cercare di scambiare qualche parola con il Pierantoni. Non mi fu possibile. Solo potei fargli un cenno interrogativo, al che lui rispose con altro cenno per significarmi che nulla sapeva e nulla capiva.

A mia volta fui sospinta verso la mia cella: Komme, komme, loss, loss!. Cercai di andare più lentamente possibile e prima di entrare potei ancora vedere il Pierantoni che si andava a raggiungere al gruppo, fra cui si notava per il suo camice bianco.
Rientrai in cella e rimasi allo spioncino per rendermi conto degli avvenimen- ti che non comprendevo.
Come detto più sopra notai, che non erano i nostri soliti agenti a prelevare i detenuti. I gruppetti di due erano muniti di un lungo elenco, che si doveva ritenere non compilato al carcere, in quanto il prelievo non veniva sistematica- mente eseguita cella per cella ma nominativamente, cosicché in più di una cella si bussava due o tre volte, per chiamare i prescelti.
Così al 288 proprio innanzi a me su quattro detenuti, due aperture di porta e prelievi, al 286 su cinque detenuti, tre aperture e quattro prelievi e così da per tutto.

 Giovani e vecchi, giudicati ed inquisiti, assolti o condannati: non esisteva regola!

Il gruppo nel fondo aumentava.
I tedeschi avevano fatto una sommaria divisione tra gli ebrei e gli ariani. I primi venivano raggruppati tra le scale ed il finestrone, i secondi tra le scale ed il cancello d’ingresso.
Gli animi cominciavano ad essere tesi.
Non si trattava certo di una partenza normale in quanto si negava ai detenuti di portare con sé il corredo personale, le vettovaglie, e gli si impediva persino un minimo di toletta, come quello di infilarsi la giacca o il paletot, ed alcuni venivano sospinti sui ballatoi mentre ancora si allacciavano i calzoni e si ravviavano i capelli con le mani. Non si teneva neppure conto dell’età e dello stato di salute: alla cella 278 erano quattro zoppi tra cui Alberto Fantacone, mutilato di guerra, e tutti e quattro furono fatti scendere ed allineati con gli altri. Il nervosismo cominciava ad impadronirsi del braccio ed uno degli ultimi ad essere tratto da una delle celle dell’ultimo piano fu sospinto per le scale a forza mentre i suoi gridi si propagavano per il braccio.
Erano nel frattempo venute le quattro.
Con l’aiuto di uno specchietto cercavo di rendermi conto di quanto avveniva al gruppo dei politici, troppo lontano da me per osservarli direttamente. II buon Pierantoni si distaccò un momento dalla fila e attraversato rapidamente il corridoio entrò in infermeria per togliersi il camice ed indossare la giacca militare. Più alto della media normale, in divisa e con la barba era facilmente riconoscibile anche in lontananza.

Intanto, nella cella vicino alla mia, la 297, la moglie di Genserico Fonatana aveva ottenuto di uscire un momento e avviatasi sul ballatoio era giunta di fronte ai partenti. Le fu concesso di scambiare qualche cenno con il marito che era allineato con gli altri e poi fu fatta rientrare. Cioò ci rassicurò in parte, perchè le era stato assicurato che essi andavano a lavorare. Fu fatto un primo appello degli ariani, poi l’uffciale delle SS passò a fare l’ appello degli ebrei.

 Come ho detto questi erano proprio sotto la mia cella e quindi potevo osservare lo svolgimento delle cose comodamente. Fatti allineare per tre, fu loro dato qualche comando militare per ottenerne I’allineamento. Erano 66. II più giovane, che faceva parte della famiglia Di Consiglio (7 fucilati)i era stato catturato con gli altri familiari 48 ore prima e la mattina interrogato da una mia amica le aveva detto di avere 14 anni. II più vecchio, canuto ed apparentemente in pessime condizioni di salute, poteva avere circa 80 anni. Tutti parlottavano fra loro e cercavano di costituirsi in gruppi di amici o parenti, per stare vicini nella eventualità di un viaggio. Durante tale parvenza di esercizio militare, uno dei più vecchi si volse a sinistra anziché a destra come era stato dato I’ordine: ciò fece sorridere alcuni tra i suoi compagni, ma tale buon umore fu subito represso dalla SS che percosse con due ceffoni il disgraziato. Fatto I’appello, la SS domandò: Se c’è qualcuno di voi che sia disposto ad eseguire lavori pesanti di sterro e simili, alzi la mano. Vidi gli ebrei guardarsi tra di loro e poi timidamente qualche mano cominciò ad alzarsi. Un mormorio corse tra di loro Lavorare. Qualcuno si fregò le mani. Allora riprese la SS quanti siete disposti a lavorare?. Nuovo movimento tra gli ebrei, e tutte le mani furono in aria. Quindi tutti volete lavorare? Bene! lo faccio un nuovo appello, se qualche d’uno non è stato chiamato esca dalla fila. Fu rifatto I’appello il piccolo Di Consiglio non fu chiamato, fatto un passo avanti, il suo nome fu aggiunto agli altri.

 Dalla parte degli ariani si stava svolgendo intanto qualche formalità che ci sfuggiva. Gli ebrei lasciati soli si raggruppavano e parlavano animatamente benché sottovoce. Qualcuno scambiava cenni con le donne al primo piano. Altri, scritti affrettatamente dei biglietti, li affidavano ai detenuti del piano terreno le cui celle rimanevano loro vicino. Noi lanciammo loro sigarette, fiammiferi e pane.
A questo punto gli spioncini ci furono chiusi e non ci rimase che convergere tutta la nostra attenzione nell’udito.
Erano circa le 17. Nuovi appelli, nuovi comandi militari, un movimento confuso di cui non ci rendevamo conto. II tempo passava. Perché non partivano mai? Fu durante tale periodo che i disgraziati furono legati e compresero la fine che li attendeva.
Era l’imbrunire quando si sentì lo scalpiccio dei piedi della colonna che si muoveva. Non usciva però come per le partenze solite dal cancello grande, ma dal cancello del cortile. Salii sulla branda e da lì mi arrampicai all’inferriata. Essi sfilavano sotto di me, troppo rasente al muro perché potessi vederli e si avviavano verso il cortile tra il III ed il VII braccio. A tratti vedevo un tedesco armato che evidentemente li scortava. Sul fondo, metropolitani in divisa col fucile mitragliatore imbracciato, seguivano lo sfilamento.
Nel cortile fuori dalla mia vista, ma sotto gli occhi dei detenuti del VII, i disgraziati furono fatti salire sui camions ed avviati al massacro.

 Da quanto mi consta furono prelevati tutti gli ebrei presenti al braccio in numero di 66 senza tener conto dell’età e delle condizioni di salute. due che si erano sentiti male e che erano rimasti, fino a quando avevo potuto vederli, senza conoscenza, non mi risulta che siano stati riportati in cella e tanto meno in infermeria, dove gli ebrei non erano mai mandati.

 Circa I’appello degli ariani ero troppo lontana per poter distinguere con esattezza i nomi non conosciuti, ma ebbi I’avvertenza di contare i nomi stessi. Mi risulta in tal modo che tra ariani ed ebrei il III braccio diede 192 uomini. 

So che i tedeschi il giorno dopo mandarono l’elenco dei “partiti” in cucina perché fossero cancellati da chi di dovere dalla nota del vitto infermeria. Tale elenco fu, seppi dopo, per molto tempo nelle mani dell’infermiere italiano (detenuto) a nome Valentino, il quale però non avendo trovato a chi interessasse, ebbe a distruggerlo in un secondo tempo. Sul numero eravamo d’accordo.

 Posso dire che fra i prescelti vi erano numerosi innocenti, ed anche degli assolti. In questa seconda condizione era Pietro Paolucci che era stato assolto il 22 marzo ed il cui vero nome era (seppi dopo il 4 giugno) Paolo Petrucci.

 Persone mai interrogate e con imputazioni lievissime. Era di fronte a noi un oste arrestato da cinque giorni per aver servito da mangiare ad alcuni ebrei; al piano di sopra un ragazzo di 17 anni arrestato in strada per violazione alla norma del coprifuoco.
Mi sono resa conto che invece sfuggirono alla strage tutti quelli imputati di spionaggio, anche se con prove gravissime. Tra questi il Ten. Fabrizio Vassallo, Corrado Vinci, Bruno Ferrari, Salvatore Grasso e Bergamini, i quali furono più tardi giudicati con tale imputazione condannati a morte e fucilati: il 24 maggio. Sfuggirono egualmente alla strage vari condannati a morte: tra cui Arcurio e compagni (mai più fucilati) e Padre Morosini invece fucilato il 10 aprile.

RIFORMA DELLA COSTITUZIONE

VADEMECUM PER IL CITTADINO

IN VISTA DEL REFERENDUM COSTITUZIONALE

I cittadini devono sapere che:

  1. il rafforzamento dell’esecutivo, la stabilità, la governabilità non richiedono necessariamente la devastazione della nostra forma di governo e dei suoi principi fondativi, anzi, esecutivi forti necessitano di opposizioni forti;
  2. l’uscita dal bicameralismo perfetto o paritario non significa mascherarlo con un mocameralismo di fatto, accompagnato da una Camera di zombie.
  3. con la riforma non si attribuisce la governabilità ad una maggioranza. Infatti, a governare sarà un partito che al secondo turno si trova ad avere il 55% dei seggi, anche rappresentando il 20% degli italiani
  4. con la riforma non si eleva il grado di efficienza e governabilità. Il procedimento legislativo diventa molto più farraginoso. Sono previste circa 10 procedure legislative!! Si ipotizza un aumento del contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale.
  5. con la riforma non sono soppresse le province. Infatti, viene meno la loro copertura costituzionale, ma il governo deciderà con legge ordinaria se sopprimerle o meno.
  6. con il nuovo regime delle competenze Stato-regione, non si ridurrebbe l’elevato tasso di contenzioso davanti la Corte costituzionale. Il federalismo competitivo aumenta i conflitti, in particolare con la clausola dell’interesse nazionale od anche supremacy clause, che da la possibilità al governo di stabilire quando c’è un interesse nazionale ed il potere di legiferare nelle competenze regionali.
  7. con la riforma si verifica una forte compressione delle opposizioni. Quindi sostanzialmente della rappresentanza, così come della democrazia partecipativa.
  8. gli organi di garanzia quali il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale saranno risucchiati dalla maggioranza.

  Alberto Lucarelli, Ordinario di Diritto Costituzionale

  Università di Napoli Federico II

IL VOLTO DELLA REPUBBLICA – DI GIUSEPPE BATTARINO

Pubblichiamo l’ intervento del magistrato Giuseppe Battarino al convegno dell’ anpi Seprio di sabato 12 marzo.

Il volto della Repubblica

Il riconoscimento dei diritti dell’uomo nei lavori dell’Assemblea Costituente

I lavori dell’Assemblea Costituente sono una fonte pressoché inesauribile di spunti e suggestioni per la difesa dei principi della Costituzione, per la lettura del presente, per la costruzione di un futuro possibile per il nostro ordinamento democratico.

Un rapido sguardo sui passi che hanno portato al testo vigente dell’articolo 2 della Costituzione offre queste opportunità.

Nella riunione del 9 settembre 1946 la Prima Sottocommissione, a conclusione di una lunga discussione, dà incarico a Giorgio La Pira (DC) e Lelio Basso (PSIUP, eletto nel collegio di Como) di concretare in due articoli il risultato acquisito nella discussione.

Nella seduta dell’11 settembre 1946 vengono presentati i due articoli:

«Art. 1. — La presente Costituzione, al fine di assicurare l’autonomia e la dignità della persona umana e di promuovere ad un tempo la necessaria solidarietà sociale, economica e spirituale, in cui le persone debbono completarsi a vicenda, riconosce e garantisce i diritti inalienabili e sacri all’uomo, sia come singolo sia come appartenente alle forme sociali, nelle quali esso organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona».

«Art. 2. — Gli uomini, a prescindere dalla diversità di attitudini, di sesso, di razza, di classe, di opinione politica e di religione, sono uguali di fronte alla legge ed hanno diritto ad uguale trattamento sociale. È compito della società e dello stato eliminare gli ostacoli di ordine economico-sociale che, limitando la libertà e l’uguaglianza di fatto degli individui, impediscono il raggiungimento della piena dignità della persona umana ed il completo sviluppo fisico, economico e spirituale di essa».

Interviene nella discussione Concetto Marchesi (PCI), affermando che “l’uomo, cioè l’uomo politico, l’uomo civile, è un essere sociale il quale va acquistando, di fronte all’instabilità delle leggi scritte, una certa coscienza del diritto naturale universale e nello stesso tempo l’idea di una suprema giustizia primitiva, sacra ed eterna”.

E’ dunque l’”uomo politico” il collante necessario della civiltà e della società. Era chiaro ai costituenti, e deve essere chiaro a noi, che senza politica – chiamata così, con il suo nome, senza ipocrite sostituzioni dettate dalla cosiddetta antipolitica – non c’è ordinamento democratico.

Nella seduta di Sottocommissione del 19 dicembre 1946 viene presentato il testo uscito dalle discussioni e coordinato: «La presente Costituzione, al fine di assicurare l’autonomia, la libertà e la dignità della persona umana e di promuovere ad un tempo la necessaria solidarietà sociale, economica, spirituale, riconosce e garantisce i diritti inalienabili e sacri dell’uomo sia come singolo, sia nelle forme sociali nelle quali esso organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona».

Si consolidano due idee forti.

I Costituenti rifiutano la scelta semplice di limitarsi a riconoscere i diritti “inalienabili e sacri dell’uomo” ma chiedono ai cittadini della Repubblica di esercitare ciascuno la propria solidarietà nei confronti degli altri.

Il termine “solidarietà”, apparentemente frutto di sintesi a noi contemporanea, appartiene invece, splendidamente, alla storia della Costituzione.

I Costituenti intuiscono poi che non vi può essere realizzazione della persona se non “nelle forme sociali”.

E’ solo la socialità che può dare la felicità.

La conquista della felicità: quel termine “scandaloso” che fu grande intuizione della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 1776, ma che, va ricordato, pervenne a Benjamin Franklin dalle riflessioni del giurista napoletano Gaetano Filangieri.

Il 24 gennaio 1947, in seduta plenaria di Commissione per la Costituzione viene presentato un testo più avanzato:

«Per tutelare i principî sacri ed inviolabili di autonomia e dignità della persona, e di umanità e giustizia fra gli uomini, la Repubblica italiana garantisce ai singoli ed alle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità i diritti di libertà e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale».

Si legge nella relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione, Meuccio Ruini (Democrazia del lavoro), che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana: “Preliminare ad ogni altra esigenza è il rispetto della personalità umana; qui è la radice delle libertà, anzi della libertà, cui fanno capo tutti i diritti che ne prendono il nome. Libertà vuol dire responsabilità. Né i diritti di libertà si possono scompagnare dai doveri di solidarietà di cui sono l’altro ed inscindibile aspetto. Dopo che si è scatenata nel mondo tanta efferatezza e bestialità, si sente veramente il bisogno di riaffermare che i rapporti fra gli uomini devono essere umani. […] Col giusto risalto dato alla personalità dell’uomo non vengono meno i compiti dello Stato. Se le prime enunciazioni dei diritti dell’uomo erano avvolte da un’aureola d’individualismo, si è poi sviluppato, attraverso le stesse lotte sociali, il senso della solidarietà umana. […] Caduta la deformazione totalitaria del «tutto dallo Stato, tutto allo Stato, tutto per lo Stato», rimane pur sempre allo Stato, nel rispetto delle libertà individuali, la suprema potestà regolatrice della vita in comune. «Lo Stato — diceva Mazzini — non è arbitrio di tutti, ma libertà operante per tutti, in un mondo il quale, checché da altri si dica, ha sete di autorità». Spetta ai cittadini di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica, rendendo effettiva e piena la sovranità popolare. Spetta alla Repubblica di stabilire e difendere, con l’autorità e con la forza che costituzionalmente le sono riconosciute, le condizioni di ordine e di sicurezza necessarie perché gli uomini siano liberati dal timore e le libertà di tutti coesistano nel comune progresso.”

La libertà è, dunque, anche frutto delle sue precondizioni: liberazione dal timore, sicurezza, progresso sociale, esercizio dell’autorità dello Stato.

Ancora oggi a queste condizioni bisogna guardare. Con realismo, e con la consapevolezza che viviamo in una società in cui la “sete di autorità” può prendere le forme inquietanti di una voglia primitiva di semplificazione e assumere, nel nostro Paese e altrove, le forme del populismo vendicativo e livoroso.

Sotto questo profilo, pur condividendo nella sua quasi totalità il Documento politico per il XVI Congresso nazionale ANPI, non concordo con i passaggi in cui, a proposito delle riforme costituzionali e della legge elettorale, si parla di “stravolgere le linee portanti, i valori, i principi della Costituzione”.

Vero che, come si legge nel Documento, “il sistema costituzionale è costruito sulla base di poteri e contropoteri e di organi di garanzia”, non si può negare che lo spettacolo di mercanteggiamenti infiniti e imboscate parlamentari che il bicameralismo perfetto consente e quello, altrettanto inquietante, del mercato delle preferenze in molte zone d’Italia, necessitano di correttivi. Senza entrare ulteriormente nel merito dello stato attuale delle riforme, credo vada riconosciuta la necessità di dare alla parte dinamica della nostra Costituzione una veste che corrisponda all’esigenza dei cittadini di riconoscersi in una Carta che garantisca, come gli stessi Costituenti sapevano, un esercizio produttivo e chiaro dell’autorità della Repubblica. Una Repubblica attiva, non contemplativa e solo contemplata: per evitare che la “sete di autorità” assuma nel corpo sociale forme francamente fasciste.

Non si può dimenticare che fu Togliatti, nella seduta dell’Assemblea Costituente dell’11 marzo 1947, a criticare fortemente definendolo “pesante e farraginoso” il procedimento legislativo e ad opporsi al sistema bicamerale; in un passaggio che seguiva quelli sulla nobiltà del compromesso politico in sede costituente e sull’esigenza di rinnovamento delle classi dirigenti.

Fondamentale è l’esigenza, bene espressa nei progetti che il Documento prefigura, di una “iniziativa politica sulla rigenerazione della politica e sul ruolo dei partiti”. Rigenerare i partiti politici e la partecipazione politica dei cittadini: senza in alcun modo negare la legittimazione e la funzione costituzionale essenziale dei partiti, che si esprime, anche, nella fondamentale possibilità per essi di selezionare le classi dirigenti e la rappresentanza politica, non in completa sostituzione, ma in concorso con l’espressione del voto nelle elezioni.

Grande era allora, e deve essere oggi, l’attenzione dovuta a tutto ciò che disegna, nella sua effettività, il volto della Repubblica.

Nella seduta dell’Assemblea Costituente dell’11 marzo 1947, Aldo Moro, parlando di quello che sarebbe diventato il testo dell’articolo 2 della Costituzione afferma: “occorre definire il volto del nuovo Stato in senso politico, in senso sociale, in senso largamente umano […] Uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità […] quando noi parliamo di autonomia della persona umana, evidentemente non pensiamo alla persona isolata nel suo egoismo e chiusa nel suo mondo […] non intendiamo di attribuire ad esse un’autonomia che rappresenti uno splendido isolamento. Vogliamo dei collegamenti, vogliamo che queste realtà convergano, pur nel reciproco rispetto, nella necessaria solidarietà sociale”.

Nella successiva seduta del 15 marzo 1947 sarà Riccardo Ravagnan (PCI) ad aggiungere il dato di contenuto che allora e oggi lega il riconoscimento dei diritti umani al principio di eguaglianza espresso nell’articolo 3 della Costituzione, richiamando tre principi essenziali contenuti in quei testi:

“1°) Essi riconoscono e riaffermano quelli che si conviene di chiamare i diritti di libertà, già sanciti nelle varie Costituzioni dell’800, aggiungendo a questi il riconoscimento di quelli che conveniamo di chiamare i diritti economici e sociali;

2°) Questi diritti di libertà e diritti economici e sociali non sono soltanto riconosciuti al singolo, ma anche alle formazioni sociali nelle quali gli individui sviluppano e perfezionano la loro personalità;

3°) Non solo è dato questo riconoscimento, ma è data la garanzia dell’effettivo godimento di questi diritti, cioè la garanzia della rimozione degli ostacoli che si frappongono al libero godimento dei diritti di libertà e dei diritti economici e sociali. […]

se vogliamo che la nostra Costituzione abbia un carattere effettivamente moderno, aderente alla realtà attuale, se vogliamo che la democrazia non sia soltanto una democrazia formale, ma che sia effettiva, dobbiamo integrare il riconoscimento dei diritti di libertà con i diritti economici e sociali. Ne viene, come corollario, che non si tratta soltanto del riconoscimento, ma che è necessaria anche la garanzia”.

Due giorni dopo, il 17 marzo 1947, Lodovico Benvenuti (DC) ritorna sulla portata universale dei diritti dell’uomo: “non esitiamo, onorevoli colleghi, ad introdurre nella nostra Costituzione delle norme giuridiche nuove rispetto alle altre Costituzioni. Permettete che vi rammenti quanto scriveva cinque o sei anni fa un grande maestro di diritto, il professore Francesco Carnelutti. Egli osservava che noi ci preoccupiamo, e giustamente, di estendere le nostre esportazioni: e rilevava in proposito che c’è una cosa che possiamo sempre esportare e che trova rispondenza nella nostra migliore tradizione: il diritto». Onorevoli colleghi, affermiamo dunque i diritti dell’uomo, riconosciamoli, muniamoli di una tutela sempre più intensa ed efficace. Proclamiamo, coi nostri testi costituzionali e soprattutto coll’esempio, dinanzi al mondo, i principî del vivere libero. Con questo non soltanto avrà la nostra giovane Repubblica restituita la persona umana al posto che le compete, cioè al più alto gradino nella scala dei valori, ma avrà reso un nobilissimo servigio alla causa sacra dell’umana libertà”.

L’applauso unanime dell’Aula prelude al passaggio successivo: nelle sedute del 22 e 24 marzo 1947 si propone e poi stabilisce di trasferire la materia degli articoli 6 e 7 – in cui è contenuta la proclamazione dei diritti dell’uomo, della solidarietà, della socialità, dell’uguaglianza – immediatamente dopo l’articolo 1, cosicché diventino articoli 2 e 3.

Chiarisce Ruini: “la Commissione non ha nulla da opporre a questa proposta che tende a fissare subito, nei suoi lineamenti costitutivi ed essenziali, il volto della Repubblica”.

Nella seduta pomeridiana del 24 marzo 1947 viene accolto un emendamento comune di DC, PCI e PSIUP che porta l’articolo 2 pressoché alla sua attuale formulazione.

Come dice Aldo Moro illustrando il nuovo testo “esso ha un netto significato giuridico e contribuisce a definire un aspetto essenziale dei fini caratteristici, del volto storico dello Stato italiano”.

Il volto della Repubblica è questo. E ancora oggi esso deve essere reso visibile, in primo luogo ai giovani.

Pier Paolo Pasolini, l’8 febbraio 1948, rievocando la vicenda politica e umana del fratello partigiano Guido, scrive della “turpe ignoranza in cui il fascismo immergeva i suoi giovani”.

La semplificazione ipocrita, l’invettiva becera, la turpe ignoranza, sono ancora oggi un veleno quotidiano: la risposta è il volto vivo, attivo,

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