INAUGURAZIONE NUOVA SEDE ANPI SEPRIO

COMO – SEZIONE SEPRIO

ex scuola elementare di via delle Rimembranze

Mozzate


SABATO 15 SETTEMBRE

ORE 9,00

INAUGURAZIONE

NUOVA SEDE ANPI SEPRIO

DI MOZZATE

dibattito

L’ATTUALITA’ DEI VALORI DELLA RESISTENZA


inaugurazione della mostra

I BAMBINI DI TEREZIN

DISEGNI DA UN CAMPO DI CONCENTRAMENTO

VENERDI’ 28 SETTEMBRE

ORE 21


proiezione del film

E COME POTEVAMO NOI CANTARE

ex- scuola elementare di via delle Rimembranze

per informazioni:

G. De Luca  335 6356430

D. Tozzi       333 9117986

C. Cattaneo 340 1484695

FIOCCO AZZURRO ALL’ANPI

IL 26 AGOSTO 2012 E’ NATO MICHELANGELO,

SECONDOGENITO DELLA VICE-PRESIDENTE DELL ‘ANPI DI DONGO, FRANCESCA LILLIA.

AL PICCOLO MICHELANGELO GLI AUGURI DI TUTTA L’ ANPI PROVINCIALE DI COMO.

A MAMMA FRANCESCA, AL NONNO DANILO E AL BIS-NONNO GAETANO, PARTIGIANO DELLA 52a GARIBALDI, LE NOSTRE PIU’ VIVE FELICITAZIONI.

FESTA ANPI ZAVATTARELLO

FESTA PROVINCIALE A.N.P.I. PAVIA



Zavattarello
7 – 8 – 9 settembre 2012

Impianti sportivi comunali (via E. Berlinguer)
Sala Consiliare, Biblioteca,
Castello Dal Verme


DIAMO MEMORIA AL FUTURO

idee a confronto,
le nostre storie, mostre,
spazi eno-gastronomici
e musica


DIAMO MEMORIA AL FUTURO – Zavattarello 7 – 8 – 9 settembre 

Perchè andare a Zavattarello? Pochi forse sanno che il plotone di esecuzione che fucilò i gerarchi il 28 aprile 1945 era formato dai fidatissimi partigiani dell’Oltrepò pavese, che raggiunsero Dongo insieme al partigiano Arturo, colui che guidò fino a Milano il camion su cui stettero le salme dei gerarchi e del Duce.

All’incontro con il partigiano Arturo sarà presente la nostra Wilma Conti.

http://www.aurorainrete.org/num10/4-6.pdf

L’ultimo partigiano di Dongo ha il volto bonario e sorridente di “Arturo”Giacomo Bruni. Fu lui che guidò il camion Fiat 634 che trasportò dal lago di Como fino a piazzale Loreto, a Milano, i cadaveri di Benito Mussolini, della sua amante Claretta Petacci e dei gerarchi. Oggi, a 88 anni, è l’unico ancora vivente dei ragazzi dell’Oltrepo Pavese che scortarono il colonnello Valerio – l’alessandrino Walter Audisio – nella sua missione «più grande di una montagna», a caccia di Mussolini e dei pretoriani di Salò.

 Bruni vive a Perducco, un pugno di case sopra Zavattarello, nell’alto Oltrepò, dove è nato il 20 febbraio del 1922, e dove vive tuttora con la moglie Rosa, sposata nel ’50, e uno dei suoi sette figli, che gli hanno dato undici nipoti e un pronipote. Il filo del suo racconto si dipana da quando, 19enne, venne richiamato alle armi, per arrivare fino all’oggi. Un presente che affronta con 500 euro di pensione al mese, compresa la risibile cifra di 15 euro per meriti di guerra, gli inevitabili acciacchi dell’età e la delusione per il tradimento degli ideali di allora: «Noi lottavamo per la libertà e la democrazia che ci erano state sempre negate – dice con amarezza -. I giovani di adesso stanno perdendo entrambe e neppure se ne accorgono».
 Sullo sfondo, dietro l’ultima abitazione di Perducco, si staglia la mole del castello Dal Verme: rifugio di partigiani, bruciato furiosamente dai tedeschi, poi ricostruito e oggi Museo della Resistenza. Per chi, malgrado tutto, non vuole dimenticare quel giorno di primavera, 65 anni dopo.
 «Nel 1941 ero alpino della divisione Cuneense – comincia così il racconto di Arturo, suo nome di battaglia -. Dovevo partire per la Russia, ma mi ammalai e rimasi al reparto. Mio fratello Cesare fu meno fortunato, andò al fronte e non tornò più. L’8 settembre mi trovavo a Laives, in Alto Adige, con l’artiglieria alpina. Per un giorno e una notte combattemmo contro i tedeschi, poi dovemmo abbandonare l’armamento pesante e con le armi leggere ci ritirammo verso il Veneto. Fui fatto prigioniero a Vicenza e portato in una caserma. Tre giorni senza mangiare, né bere. Ero sfinito. La terza notte me la filai e tornai verso casa, sempre a piedi. Attraversai il Po travestito da prete, la tonaca me la procurò mia sorella».
 Ma a Zavattarello, Bruni era ricercato come disertore. «I fascisti presero in ostaggio mia madre e la portarono via – continua il suo racconto -. Fui costretto a presentarmi al distretto di Tortona e da lì mi trasferirono ad Asti in un campo di aviazione. Quando venni a sapere che l’indomani ci avrebbero deportato in Germania, scappai di nuovo. Nel marzo del ’44 entrai nella banda del Greco e poi nella Crespi».
 E veniamo alla Liberazione. «La notte del 24 aprile scendemmo verso Voghera. Poi a Pavia. Da lì, sui camion presi a tedeschi e fascisti, proseguimmo per Milano. Io guidavo un Lancia Ro, ero il primo della colonna. Entrammo in città da Porta Ticinese. C’erano cecchini ovunque che sparavano dai tetti, dalle finestre. Dovemmo snidare i tedeschi asserragliati alle scuole di viale Romagna».
 Chi la scelse per la missione a Dongo? «Fu il mio comandante Ciro – risponde Bruni -, il colonnello Valerio, e Landini (capo del servizio di controspionaggio delle formazioni garibaldine dell’Oltrepo Pavese) ( Lamperti, n.d.r) viaggiavano in auto, io ero al volante di un Fiat 634».
 Chi salì a Giulino di Mezzegra da Mussolini? «Valerio, Landini e il commissario politico di Dongo, Martinelli. ( Moretti, n.d.r.) Al ritorno Landini, che era mio amico, mi confidò che quand’erano arrivati, il duce e la Petacci stavano ancora dormendo. Li svegliarono, dissero a Mussolini che erano venuti a liberarlo e lui esclamò, “Se mi liberate vi regalo l’impero”. Ma ormai l’impero non esisteva più».
 Landini le disse anche chi sparò al duce? «No. Poi da Dongo a Milano. «Caricammo i corpi del duce e dei gerarchi fucilati a Giulino. Giunti alla Pirelli di viale Zara ci scambiarono per fascisti, volevano fucilare Valerio e gli altri. Io rimasi sul camion, non mi avevano visto. Si sparava ancora, una pallottola mi bucò i pantaloni senza ferirmi».
 Infine piazzale Loreto. «La gente voleva fare scempio dei cadaveri, ricordo una vecchietta che sputò addosso al duce. Quando appesero i corpi al distributore, io me n’ero già andato».
 Bruni ha mantenuto per mezzo secolo la consegna del silenzio sui fatti di Dongo e sui nomi di chi partecipò a quella missione. «L’ordine di non parlare – rivela – ce lo diede Ciro. Lo fece per tutelarci da eventuali rappresaglie». I partigiani dell’Oltrepo Pavese di scorta a Valerio contribuirono a formare il plotone di esecuzione dei gerarchi sul lungolago di Dongo. Li comandava il toscano Alfredo Mordini, comunista, figura di spicco delle formazioni garibaldine, che sarebbe venuto in possesso della pistola servita per dare il colpo di grazia al duce. Quell’arma, una Beretta, è oggi conservata al Museo storico di Voghera.


MILANO, 10 AGOSTO

Ricorre oggi, 10 agosto 2012, il 68° anniversario della starge di piazzale Loreto a Milano.

La mattina del 10 agosto, a Milano, quindici partigiani vennero prelevati dal carcere di San Vittore e portati in Piazzale Loreto, dove furono fucilati da un plotone di esecuzione composto da militi del gruppo Oberdan della legione Ettore Muti, che agiva agli ordini del comando tedesco delle SS.

Nel comunicato del comando della sicurezza nazista, si afferma che la strage fu attuata come rappresaglia per un attentato consumato il 8 agosto 1944 in viale Abruzzi contro un camion tedesco. Tuttavia, in quell’attentato non rimase ucciso alcun soldato tedesco, mentre invece esso provocò la morte di sei cittadini milanesi e il ferimento di altri undici. Il comandante dei Gap di Milano, Giovanni Pesce, negò sempre che quell’attentato potesse essere stato compiuto da qualche unità partigiana. Certi elementi anomali hanno fatto definire da alcuni l’attentato come controverso: il caporal maggiore Kuhn aveva parcheggiato il mezzo a poca distanza da un’autorimessa in via Natale Battaglia e dall’albergo Titanus, entrambi requisiti ed occupati dalla Wehrmacht

Ma il bando di Kesselring, invocato dal comunicato e dalle alte gerarchie naziste, prevedeva la fucilazione di dieci italiani per ogni tedesco solo in caso di vittime naziste. E’ dunque lecito supporre, come fece il Tribunale Militare di Torino nel processo Saevecke, che la strage fosse un atto deliberato di terrorismo che aveva lo scopo strategico di stroncare la simpatia popolare per la Resistenza al fine di evitare ogni forma di collaborazione e garantire alle truppe naziste la massima libertà di movimento verso il Brennero.

Theodor Saevecke, comandante della Gestapo, pretese ed ottenne, ciò nonostante, la fucilazione sommaria di quindici antifascisti, e compilò egli stesso l’elenco delle vittime.

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I corpi accatastati nel piazzale. Il cartello ne dava la definizione di «assassini».

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Milite di guardia ai cadaveri esposti

Dopo la fucilazione – avvenuta alle 06:10 – a scopo intimidatorio i cadaveri scomposti furono lasciati esposti sotto il sole della calda giornata estiva, coperti di mosche, fino alle ore 20 circa. Un cartello li qualificava come “assassini”. I corpi furono sorvegliati dai militi della Muti che impedirono anche ai parenti di rendere omaggio ai defunti. Secondo numerose testimonianze, i militi insultarono ripetutamente gli uccisi (definendoli, tra l’altro, un “mucchio d’immondizia”) nonché i loro congiunti accorsi sul luogo.

Il poeta Franco Loi, testimone della tragedia e allora abitante nella vicina Via Casoretto, ricorda:

« C’erano molti corpi gettati sul marciapiede, contro lo steccato, qualche manifesto di teatro, la Gazzetta del Sorriso, cartelli, banditi! Banditi catturati con le armi in pugno! Attorno la gente muta, il sole caldo. Quando arrivai a vederli fu come una vertigine: scarpe, mani, braccia, calze sporche; (…) ai miei occhi di bambino era una cosa inaudita: uomini gettati sul marciapiede come spazzatura e altri uomini, giovani vestiti di nero, che sembravano fare la guardia armati! »

LE VITTIME

Umberto Fogagnolo, classe 1911, era un accanito avversario del regime fascista. La sua attività clandestina fu intensa e svolta attraverso numerosi discorsi e scritti. Fu tra i primi a dare l’assalto, il 25 luglio 1943, al “covo” di via Paolo da Cannobio. L’8 settembre formò bande di patrioti, organizzò rifornimenti di armi, aiutò ed inquadrò i compagni di fede. Nell’ottobre del 1943, in pieno giorno, venne arrestato a Milano nel corso Vittorio Emanuele perché affrontò coraggiosamente il comandante della ” Muti”, Colombo, mentre pestava un operaio. Domenico Fiorani, classe 1913. Nel settembre del 1943 fu licenziato dallo stabilimento nel quale lavorava, aveva poco denaro e la moglie da curare, fu così che si dedicò intensamente all’attività politica. Fondò una nuova sezione socialista a Sesto San Giovanni e diede la sua opera come propagandista e collaboratore di giornali clandestini. Il 25 giugno 1944 mentre si recava a trovare la moglie in ospedale fu arrestato dalle SS e trasferito a San Vittore. Vitale Vertemati, aveva 26 anni quando fu arrestato il 1° maggio del 44’ a causa del suo lavoro di collegamento tra i vari gruppi partigiani. Giulio Casiraghi, classe 1899, militante nel partito comunista da lunga data. Fu arrestato: nel 1931 per reati politici e per aver svolto attiva propaganda sui fogli clandestini, venne liberato dal confino di polizia nel 1936, nel 1943 perché organizzatore degli scioperi verificatisi alla ditta ” Marelli” e infine il 12 luglio dello stesso anno in quanto addetto alla ricezione dei messaggi da Londra per gli aviolanci. Tullio Galimberti, classe 1922. Chiamato alle armi, anziché militare nelle file fasciste, preferì dedicarsi al movimento clandestino. Ebbe attivi e frequenti contatti con i G.A.P e svolse numerose missioni importanti. Fu catturato in pieno giorno in una via centrale di Milano. Eraldo Soncini, classe 1901. Fin da giovane partecipò ai movimenti proletari. Attivissimo militante nelle file del partito socialista, subì un primo arresto nel 1924 e in tale occasione fu violentemente bastonato. Dopo l’8 settembre fu attivamente ricercato, ma ciò non gli impedì di partecipare alla lotta clandestina sino al giorno in cui fu catturato dalle SS. Andrea Esposito, 46 anni, iscritto al partito comunista collaborò attivamente con i partigiani della 113° brigata “Garibaldi”. Fu arrestato il 31 luglio in casa insieme al figlio Eugenio, che era sfuggito ai nazifascisti per non andare a combattere sotto le insegne della Repubblica Sociale e che verrà deportato a Dachau. Andrea Ragni, 23 anni. Dopo l’8 settembre, mentre partecipava ad un’azione per tentare di impossessarsi di armi, fu ferito e ricoverato a Niguarda da dove riuscì a scappare. Arrestato una seconda volta, riuscì a fuggire nuovamente, ma venne ripreso e rinchiuso a San Vittore sino al giorno della fucilazione. Libero Temolo , classe 1906, frequentò sin dalla gioventù i circoli comunisti del proprio paese e soffrì il carcere e le persecuzioni. Giunse a Milano nel 1925 e divenne un attivo organizzatore delle S.A..P. Fu catturato al posto di lavoro nell’aprile del 1944. Emidio Mastrodomenico, classe 1922, si trasferì a Milano nel 1940 dove operò presso il commissariato di Lambrate. Fu arrestato in quanto capo delle GAP. Salvatore Principato, classe 1892, militò sin da giovane nel partito socialista. Nel 1933 fu una prima volta arrestato perché apparteneva al movimento ” Giustizia e Libertà”. Rilasciato tornò a svolgere attività antifascista e dopo l’8 settembre lavorò intensamente per la libertà d’Italia fino al giorno del suo arresto. Renzo Del Riccio, classe 1923, socialista , era soldato di fanteria quando l’8 settembre con il suo reggimento partecipò ad accaniti scontri contro i tedeschi in Monfalcone. Tornato al suo paese, lavorò sino al marzo del 1944, epoca in cui, essendo stata chiamata la sua classe, riparò in montagna nei dintorni di Como. Organizzò un audace tentativo di sabotaggio con la collaborazione dei partigiani. Arrestato, fu inviato dai tedeschi in Germania, ma a Peschiera riuscì a fuggire e a nascondersi poi a Milano in casa di parenti. Fu arrestato in seguito ad un falso appuntamento nel 1944. Angelo Poletti, svolgeva un ‘attiva propaganda partigiana tra i lavoratori dell’Isotta Fraschini presso cui lavorava. Fu arrestato mentre andava a prelevare armi per i compagni. Rimase per molto tempo a San Vittore dove subì sevizie. Vittorio Gasparini , dopo l’invasione tedesca, messosi in aspettativa collaborò con i partigiani raccogliendo fondi e curando il funzionamento di una radio trasmittente clandestina. Fu arrestato nel novembre del 1943 vicino Brescia. Rimase a San Vittore sino al giorno della sua fucilazione. Gian Antonio Bravin , classe 1908, dopo l’armistizio iniziò la sua attività politica. Fece parte del III Gruppo GAP di cui divenne il capo organizzando vari colpi. Venne arrestato nel 1944.

I LUOGHI DELLA MEMORIA

Un presidio permanente per i luoghi della memoria

Un presidio permanente per i luoghi della memoria: questa la proposta che lancia Mirco Zanoni, dell’Istituto Alcide Cervi come commento-proposta allo sfregio compiuto al cippo partigiano di Campegine.

Qui di seguito il commento.

Visto dalla casa dei sette fratelli Cervi, simbolo di un intero territorio dalla spiccata vocazione resistenziale, è impossibile non sentirsi “parte lesa” dell’oltraggio vile perpetrato al cippo partigiano della Lora. Un elemento familiare del paesaggio campeginese, che quasi accoglieva chi arrivava in paese a monito di una storia antifascista costata tanti caduti. Proprio alla fine di via XXV Aprile, e sotto il cartello che suggerisce la direzione per il Museo Cervi.

Oggi la nuova viabilità ha mutato i percorsi abituali, ma i segni di quei sacrifici (e furono tanti non solo a Campegine), costellano la campagna e le strade della “pianurizzazione” reggiana della Resistenza, quando argini e fossi, vigne e campi divennero teatro di battaglia aspro quanto le valli appenniniche. Quel cippo che ricorda uno dei fatti di sangue più noti e cruenti della zona, alla vigilia della Liberazione, era già stato oggetto di scempio fascista, poche settimane fa. Stessa mano codarda e furtiva, che aveva appiccicato al volto dei partigiani caduti gli emblemi del regime, stickers odiosamente nostalgici, forse venduti in qualche non più tanto sperduto banchetto come fossero figurine di calciatori. Una mano pietosa e solerte, certamente di qualche campeginese offeso dal gesto, aveva silenziosamente rimosso quell’oltraggio, con la discrezione di una vigilanza civile che dovrebbe sempre essere attiva in ognuno di noi. Ma senza clamore, per non dare risalto ad uno sfregio ignobile.

Ora, nella reiterata provocazione, è scattata invece la mobilitazione da parte di tutte le istituzioni locali e da parte delle agenzie antifasciste. E’ un ottimo sintomo di salute civica, di un fronte compatto che, a prescindere dall’entità del gesto (meschinamente puerile), è pronto a scendere in campo perché non ci si abitui, non si alzino le spalle, non si minimizzi e si normalizzi anche questo. Ovvero la messa in discussione delle nostre radici storiche, delle nostre identità territoriali.

Di questa sollevazione unitaria, da parte offesa appunto, non possiamo che ringraziare sindaci, presidenti, organi di stampa, singoli cittadini che a partire dalla prima segnalazione non hanno sorvolato su questa piccola grande ingiuria.

L’antifascismo o è attualità, o non è; semplicemente. Il confronto tra visioni della civiltà, tra prevaricazione e libertà non è affar di storici, o di nostalgici, ma è urgenza quotidiana di cui tutti ci dovremmo occupare. Se ne sono accorti in tanti, rispondendo all’appello che abbiamo lanciato da Casa Cervi insieme all’ANPI nazionale lo scorso 25 luglio, per istituire una Zona Democratica, limite invalicabile da quanti ancora (violando la legge) inneggiano ai (ne)fasti del Duce.

Di gocce come queste purtroppo ne abbiamo viste tante: piccole e infime provocazioni sempre più ardite e impunite che stillano odio e negazionismo, erodendo con perseveranza i contrafforti storici della Costituzione. Tocca a questa generazione, e non alla prossima, fermare questa deriva, questo progressivo smottamento che qualcuno vorrebbe inesorabile, con il passare degli anni e l’indebolimento dei legami memoriali.

Non si tratta solo di ideali e proclami: ci sono azioni concrete da fare, e alla portata di tutti. La prima l’abbiamo vista proprio in queste ore, ed è non voltarsi dall’altra parte, non lasciar correre, ma denunciare e rispondere ciascuno nei propri ruoli pubblici e privati. La seconda è proseguire senza soluzione di continuità un percorso di conoscenza, racconto, se necessario rialfabetizzazione antifascista: grazie a quelle figurine fasciste, sui giornali è riapparsa la storia dei cinque caduti della bassa Val d’Enza sulla via della ritirata tedesca, il 23 aprile 1945. E di questo siamo enormemente grati a questi squallidi camerati nottambuli.

La terza costa poco, e attiene a come si decide di leggere il proprio territorio storico, a partire dalla toponomastica: i nostri paesi sono fitti di riferimenti e di segni della lotta per la libertà, una rete di luoghi di memoria che non sono solo cippi. Questi luoghi possono essere rianimati e popolati tutti i giorni, diventare percorsi pedonali per famiglie e studenti, affinché siano presidiati tutti i giorni, e non solo dal rituale doveroso del 25 aprile. In Germania le città sono piene di “pietre di inciampo” che nessuno può ignorare (turista o residente che sia). A Lubiana la cintura di filo spinato che strangolava la città occupata dalle truppe fasciste è diventata un percorso sportivo che i cittadini riempiono ogni domenica. Riportiamo la gente su quei luoghi, senza abbandonarli alle sinistre attenzioni di qualche indegno provocatore, e di certo gli sfregi e gli oltraggi saranno meno possibili, e di certo meno inosservati.

Trasformiamo quei luoghi che furono di morte e sacrificio, in luoghi di vita e di socializzazione, e nessuno oserà più profanarli, perché saranno di tutti e per sempre.

Mirco Zanoni, Istituto Alcide Cervi

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